Maria Lenti per ”Nella cenere dei giochi” di Irene Sabetta
![]() Nella cenere dei giochi
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autori: | Irene Sabetta |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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La poesia di Irene Sabetta di Nella cenere dei giochi, uscita di recente, si dipana in tre sezioni (Riscatteremo i nostri anni d’università, Il silenzio sorgivo, La radiografia dell’invisibile) e, nell’exergo di ognuna di esse, in altrettante massime che, a mio parere, aprono finestre. (Un esempio: “nessuno conosce / il passato che lo aspetta”. Qualche finestra, nel soffermarsi sul paratesto, anche dal lungo brano in prosa, “Iris”, dai titoli in inglese di alcuni testi: “Disease”, “Sister”, “This is a love song”. Lascio tuttavia ad uno scritto diverso da una recensione questo aspetto linguistico e stilistico).
Procede e si fa, la poesia dell’ultima raccolta, la terza dopo Inconcludendo (2018) e Il mondo visto da vicino (2020), per immagini (“All’immaginazione preventiva”) e voci, talora contrastanti altre volte in simbiosi, tese tutte verso, da un lato, la natura e l’essere del presente e, dall’altro, l’esistenza, pur indistinta, del non più ovvero l’assenza dell’indistinguibile: talmente uniti, i due elementi del vivere, da risultare un unicum di dolore e di gioia, di ira e di serenità.
Pienezza e vitalità, sofferenza e sguardo lucido, accumulazione di vissuto e la domanda: quando finisce un tempo e ne inizia un altro? Il primo: i giochi. Il secondo: la loro cenere. L’interrogativo serpeggia sotteso, benché l’infanzia del gioco e dell’innocenza resti, intera, non nella nostalgia ma nella trama dei giorni, nel loro pensato e nel loro svolgersi interiore.
Perdite e scatti. Consapevolezze di oggi e incoscienze lontane divenute il terreno di semina e di raccolta nel presente che vive proprio per quell’humus.
Racconto, talora intenerito altre volte risentito, di una vita persa nella sfumatura mitica lontana e calata nel feriale, vicino, con gli inciampi e le malattie inevitabili, destinali in qualche misura (“Me”, “Ofelia”, “Sotto il segno del cancro”), le accensioni (“Eur”, “Poesia”, “Da noi a Iguaçu”). Racconto, e richiesta, tacita, su come sia stato possibile il salto, chi lo abbia determinato, chi lo determina, come e se esserci dentro. Perché dentro, a testa alta o a fronte chinata, ci si sta, correndo o rincorrendo (“Ricordo d’infanzia”), scegliendo la strada (“Avviso”) o spinti anche proditoriamente su una via.
Quasi moderna Alice, l’agonista corre per restare nello stesso posto ma ricca di madre, sorella, affetti, esperienze, di giochi.
«…
T’accendi d’ormoni a centinaia
la fiamma t’attraversa
di rabbia e d’abbandono.
Eravamo la regina eravamo
la madre e la figlia
io ero il ferito tu il cane l’ambulanza
io ero il prato tu la mucca la fontana.
Facciamo che eravamo facciamo
la merenda il compleanno il girotondo…
cascò il mondo.
…».
(“Ordalia”)
“Facciamo che eravamo”: prima, appunto, del giudizio divino. O prima che il mondo, quello che conteneva tutto e, va da sé, solo il tutto, cadesse lasciando lì, al suo posto, «un gomitolo di fil di ferro / un grumo di sangue cruento / successione di scossoni / non più fiume / ciclo / non più flusso.» (ibid.)
Ma anche prima che ci fosse la poesia («Ho visto una poesia / alzarsi e camminare / libera e scalza attraverso i muri. / Tra poco rinascerò anche io.», “Mattina di novembre”) a raccogliere almeno una parte di quel tutto, a darle corpo e nome trovando le parole per dire la cenere e il desiderio dei giochi, farli rivivere.