Maria Lorello per Adua Biagioli con «Il tratto dell'estensione»
![]() Il tratto dell'estensione
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autori: | Adua Biagioli Spadi |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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Il Tratto dell’estensione è un libro che non lascia indifferenti. Dopo averlo letto, mi è venuto in mente ciò che Eugenio Montale diceva di Guido Gozzano e cioè che il valore della sua poesia spesso nasceva da un urto o uno shock, dall’accostamento ‘violento’ di parole, suoni (e concetti) per loro natura lontani. Questa stessa impressione ho provato leggendo le poesie di Adua Biagioli Spadi quando, per fare un esempio parla di “un ruggito” e subito dopo di “sussurro” (da una poesia all’interno del libro, che vede protagonista il mare), due suoni diametricalmente opposti, per intensità e contrastanti. Per chi non la conosce, l’autrice è pittrice, maestra d’arte e operatrice culturale, ha esordito con il libro “L’Alba dei papaveri” edito da La Vita Felice e poco tempo dopo con “Farfalle” (GaEle editore), riconosciuti in numerosi interessanti premi letterari. Il tratto dell’estensione è la nuova raccolta, e vorrei tramite essa dare una mia interpretazione di che cos’è la poesia e a cosa serve oggi, che ancora di più ne sentiamo la necessità. Mi piace farlo citando Garcia Lorca, quando dice che “la poesia serve a nutrire quel granello di pazzia che tutti abbiamo dentro e senza il quale è imprudente vivere” ma anche facendo ulteriori considerazioni che riguardano gli antichi Greci, che avevano divinizzato la poesia che oggi continua a piacere e che ha un effetto pregnante su di noi. Il critico letterario Francesco De Sanctis, parlando di effetti della poesia sull’uomo, scriveva, a proposito di Leopardi, poeta per antonomasia, che “questo uomo odia la vita e te la fa amare, l’amore e la virtù sono illusioni e te ne accende nell’anima un desiderio vivissimo”. Del resto anche il nostro contemporaneo Alessandro D’Avenia, professore e autore di libri di successo,dice la stessa cosa del poeta su uno dei suoi recenti libri “L’Arte di essere fragili”. La poesia ha il potere di farci sentire forti, di accenderci un fuoco, di lenire il nostro dolore, anche quando parla di sofferenze o di assenze. In un libro autobiografico di Alda Merini, con prefazione di Giorgio Manganelli, si parla di “vocazione salvifica della parola” poetica. Se guardiamo le cose con gli occhi di un bambino, ci rendiamo conto che la poesia è il nostro pane,, ciò che nutre la nostra anima facendoci cogliere l’essenza della vita: un poeta sa dare voce alle aspettative deluse, ci fa andare alla ricerca di noi stessi per comprenderci e analizzarci, per trovare uno spiraglio di speranza anche laddove il “buio” incombe, ci salva. Adua a questo proposito scrivendo dei poeti dice che “consegnano i diamanti ed estraggono quelli corrotti incidendo versi sulle foglie/solelvano il segreto del vento”. Ma parliamo anche del titolo di questo libro “Il tratto dell’estensione”: ogni titolo, come sappiamo è il biglietto da visita dell’opera e spesso riassume all’osso il contenuto interno dell’opera stessa. Un titolo che da subito mi ha incuriosito, come penso incuriosisca chi si trova di fronte alla lettura di questi testi. Sono partita ad analizzare la parola “tratto” e la parola “estensione”, per capire meglio un qualcosa che di primo acchito mi sfuggiva ed ho scoperto che vi sono ben sette significati relativi a questo termine: tratto come “segno”, tracciato o tratto come parte di un oggetto o di un elemento che si estende in lunghezza, una distanza tra due punti, un percorso, un tratto in salita e un tratto che discende, la porzione della superficie stesa si pensi al “tratto del mare”. E così pure il significato della parola “estensione”: come ampliamento di confini, passaggio da un’accezione ristretta di un vocabolario a una più ampia, come lo è ad esempio, un movimento con cui estendiamo un arto. Sono le parole chiavi del titolo dai pluri-significati e dalle molte interpretazioni: ogni poesia della raccolta, ogni verso, ogni singola parola è un tratto, un segno che ci proietta e che si estende, si allunga e ci porta verso un luogo indeterminato, fuori di noi per cogliere qualcosa che risiede dentro di noi, e che talvolta non sapevamo di avere.
E interessante risulta dunque esserne la copertina, sulla quale campeggia la Spirale Aurea di Fibonacci. Titolo e illustrazione collegati tra di loro: la spirale aurea è una figura geometrica ottenuta considerando la traiettoria di un punto che si muove su una semiretta, la quale ruota uniformemente intorno alla sua origine e questa immagine si adatta perfettamente al contenuto del libro e al titolo: nei testi possiamo percepire ‘gli stati d’animo’ che nel corso della nostra vita mutano, come noi stessi facciamo:l’autrice stessa suggerisce il’idea centrale del proprio lavoro in una frase significativa collocata prima dell’inizio del libro che riporto “Alcuni stati d’animo non sono che evoluzioni dell’apprendere”.
E poi c’è la rosa, inserita nella spirale aurea, che mi ha suggerito che il tratto si dipana da un’origine e l’origine non poteva che essere l’amore, di cui il fiore ne è simbolo, il sentimento salvifico e motore dell’universo che ‘move il sole e le altre stelle’. Mi colpisce come l’autrice parla dell’amore nell’ultima poesia del libro quando dice “ e lì divenni zolla senza appoggio/sconfitta da un eterno sogno”.
Ogni sezione della poesia “La linea fragile”, “Il segno possibile” e “Perdersi non più” è introdotta da un pensiero di David Grossman e i testi dell’autrice stilisticamente e formalmente sono composti da versi sciolti e schema metrico libero, senza rima, fuori da un classicismo scandito da terzine, quartine, ottave. Spesso manca la punteggiatura o è ridotta all’essenziale quasi a voler valorizzare il significato del titolo, come se proprio un punto, una virgola, fossero ostacolo all’estensione, mentre le pause si danno alla chiusura di ogni verso. Tutto in un linguaggio che balza all’occhio, con termini ricorrenti che ci richiamano il colore rosso in tutte le sue forme e sfumature; rosso ciliegia, vermiglio senza tralasciare l’aggettivo ‘stellare’. Così i nomi delle piante sono variabili ricche: dalle ortiche ai gelsomini, dai trifogli alle felci, dal giglio ai rovi delle more, ai fichi, alle nocciole dalla mimosa all’acacia, fino al cedro e agli aceri. La fauna si estende nei suoi nomi , dai gatti alle lumache, dalle falene ai delfini, dalle farfalle al geco, dal merlo al puledro, dai pavoni ai gabbiani e alle api e così via, in un contesto che fa comprendere l’amore radicato che l’autrice ha verso la natura.
C’è poi una parola espressa o sottintesa che ricorre ed è il “Tu”, la seconda persona singolare che ci dice “restituiscimi”, “concedimi”. Il Tu, è l’interlocutore di molte poesie, ma chi questo Tu? La persona amata o l’amore personificato? Quel Dio di cui parla Petrarca nel famoso sonetto “Solo e pensoso” o siamo ciascuno di noi a cui l’autrice si rivolge? Questo rimane un nodo di mistero che l’autrice non ci rivela, così che l’indeterminatezza ci affascina come il “forse” e ci rende la bellezza della poesia che non va spiegata, ma sentita. Il tu spesso è un noi e lo percepiamo dall’uso del verbo alla prima persona plurale e a quel noi, espresso o sottinteso, con il quale l’autrice ci rende partecipi dell’esperienza e dei sentimenti.
Interessante l’accostamento insolito di nomi e aggettivi come “volto frastagliato”, oppure “evento fermentato” e di figure retoriche presenti in diverse liriche, dagli enjambement frequentissimi che dilatano gli spazi, le metafore, gli ossimori quali “breve eterno”, “linguaggio muto”, urlo silenzioso” presente in una lirica che ci porta al dipinto di Munch. Troviamo l’anastrofe, l’inversione del costrutto sintattico soggetto-predicato- complemento come ad esempio”dagli scomposti sensi della nuvola/prende forma l’astratto ricomporsi” e ancora l’anafora in diversi testi.
Di queste poesie ho amato la capacità, che l’autrice ha saputo rendere, di dare anima alle cose, tutte, personificandole e vorrei riportare una poesia che mi è piaciuta in maniera particolare, l’emozione che nasce dalla visione di un mare personificato:
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Contro chi ruggisci mare smembrato dalla notte insonne
che vai scovando insenature ricadendo nell’anima
di caverne vive, dove l’arco si inerpica perduto
e mille volte ritrovato?
Dove infrangi onda i tuoi sospiri riportati e i baci al vento
sulle vele, i fremiti di alghe e i sottili sguardi di gabbiani?
Dentro ai tuoi ritiri cerco l'abbraccio del molo atteso
il faro fioco che a fatica riapre il buio
un getto fresco di possibilità.