Mariano Menna per Melania Panico
![]() Campionature di fragilità
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autori: | Melania Panico |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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Recensione di “Campionature di Fragilità” di Melania Panico
lo strascico delle cose rapprese
è predisposizione alla cura
ricerca dell’ala guerriera.
Campionature di fragilità che si dispiegano su carta, che si palesano in parole: la poesia di Melania Panico evoca immagini che sprigionano una “barbara energia”, come ha ben sottolineato Davide Rondoni nella prefazione alla raccolta. Una distensione del verso, la sua, che tenta di sviscerare l’esistenza, di mostrare le pieghe più recondite e meno palpabili del dettato esperienziale (la disumana forma del ricordo/alberga in pieghe poco sottili) , senza trarre giudizi di valore, ma piuttosto fornendo un filo d’Arianna che unisca tutte le cose e che risulti, allo stesso tempo, imperfetto e privo di un’autentica quadratura del cerchio; vi è infatti uno scarto minimo quanto incolmabile ed inspiegabile tra vita e poesia, tra esperienza vissuta e narrazione poetica:
Si può incidere nei muri/ la storia semplice /eppure il posto che spetta ai parolieri /è il guado incontrovertibile /arginato, arreso.
Oppure:
fa fatica la mano/ a commutare il pensiero prestato/ sento la parola compromettersi /nel momento essenziale /scevro di linearità.
Vi è, dunque, una vertigine palpabile tra il mestiere di vivere e quello di scrivere, un vuoto immenso che stride con la quotidianità (Dovrebbe essere tutto dritto, grato/ le pietanze sul tavolo del tinello/le conversazioni a luce soffusa/si bada a tutto, e niente resta): all’interno di questa polarità che viene a caratterizzare le vite dei poeti – visti quasi come anfibi che si dividono in maniera logorante tra gli eventi della vita e quelli della penna -, emergono prepotentemente il ruolo e l’importanza del lavorio poetico, ma contemporaneamente il suo aspetto sinistro e quasi disumano, il suo rasentare e, talvolta, cercare l’alienazione dalla vita per poi poterla maledettamente raccontare: “In piedi è di nuovo questo il dramma: / non riuscire a raccontare la calma.”
Bagnato da un mare di parole, da onde impetuose che non cessano di ripresentarsi a riva, il senso di estraneità può anche portare il poeta ad una sana e momentanea invidia per chi anfibio non è, per coloro che, pur pienamente immersi nella vita, non hanno parole per essa: “E’ semplice la quiete / per chi non ha parole/ che si arrampicano in gola.
Questo attimo di debolezza, questo ripudio non può durare a lungo, non può nulla contro la vera natura del poeta e contro la sua inevitabile predisposizione patica (“l’aria interferisce, commuove”): è la potenza del sentire che funge da chiamata alle armi per il poeta e non accetta defezioni; soprattutto, è la cognizione del dolore che chiama in causa la parola poetica, a prescindere dalle intenzioni del suo artigiano. Dinnanzi al dolore più autentico (“E’ difficile il destino delle peripezie”), l’uomo resta attonito, ma il poeta non può assolutamente seguirlo su questo sentiero del silenzio, non si confà alla sua natura; del resto, è la stessa parola poetica a fornire con umiltà un abbozzo di soluzione al problema del dolore, una possibile salvezza: “Forse è questa la forma della soluzione/ Reinterpretare radici fangose, renderle gioia.”
È proprio in questo distico che viene ad esprimersi una delle chiavi più interessanti dell’intera raccolta, perché l’esperienza del dolore e delle nostre fragilità può anche fungere da preludio alla gioia, se lo si vuole: del resto, il lamento baudelairiano “o dolore, o dolore” ed il grido biblico di Giobbe non devono necessariamente condurre alla rassegnazione e far calare il sipario anche su quanto di buono la vita può donarci; giunti ad una consapevolezza più matura (“[…] ma le rughe insegnano/ segnano”) ma non per forza stoica dell’ineluttabilità del dolore, “restare a galla è la nuova prospettiva” ed emergono così la sacralità del dolore, la propedeuticità dei sui insegnamenti e la sua intrinseca e paradossale umanità (“contorcersi ha un solo verso, il nostro/ quello umano instabile scontroso”). La sacralità del dolore, in questo caso, riguarda l’uomo, ma ovviamente può inerire alla vita in generale ed ai suoi sentieri, che non sono meno tragici di quelli umani: nella raccolta di Melania Panico è fortemente presente la natura e, in particolare, è mirabilmente rappresentata in alcune poesie la forza vegetale del paesaggio (le foglie svegliano i piedi /la terra insegna i passi/ per tributo alla vita), che va ad intrecciarsi – quasi come se parlassimo di radici – simbioticamente con la forza, la sopportazione e la pazienza dell’uomo che cerca di andare avanti nonostante tutto. È proprio dovuto alla sopportazione – che spesso e volentieri giunge al suo limite – l’intimo desiderio di stabilità (“Ora io auspico alla quiete di un albero /alle radici fermi di posa in opera /[…] a non mentire”) che assale l’uomo: un desiderio quasi sempre destinato all’insoddisfazione ed un flusso di menzogne che tende a perpetuarsi a prescindere dalla volontà dei soggetti, tanto risulta ineluttabile lo scarto simmeliano tra vita e forma che tutto pervade; nel mondo contemporaneo, del resto, la stessa vita è sinonimo autentico di sradicamento, in quanto proiettata verso l’aperto (in tedesco) e quindi eccedente le forme che tentano di imprigionarla. In tal senso, lo stesso approccio sistematizzante e razionalizzante dell’uomo attuale si scontra con il comprendere, che caratterizza le scienze dello spirito, e con la dépense dei possibili: “la ragione ha radici nel terreno/ si trattiene sempre/ con le unghie sanguinanti/ non abbraccia possibilità /ha bisogno di spiegare”. Tornando, in conclusione, alla definizione di Rondoni, appare chiaro come la barbara energia che caratterizza il dettato poetico di Melania Panico sia in fin dei conti la vita stessa che si ribella al giogo della forma, pur essendo intrinsecamente legata ad esso, vista l’impossibilità di esprimersi in altre modalità; un rapporto, questo, viscerale quanto tragico – e forse tragico proprio perché viscerale – come quello che intercorre tra esperienza vissuta e poesia, che funge da risposta esaustiva per coloro che si interrogano sull’effettiva utilità della parola poetica e del suo venire alla luce.
Mariano Menna