In un ampio ventaglio di rimandi, il bianco è anche e soprattutto sinonimo di innocenza, di pudore o di indefinitezza. Di sicuro, in svariate religioni simboleggia la divinità. Come esempio si pensi al cristianesimo, dottrina in cui questo colore richiama la luce e, inevitabilmente, la realtà spirituale ed eterna. Da qui la netta contrapposizione col nero, che, invece, esprime l’assenza, il lutto, la morte.
A ben vedere, il bianco, che raffina la bellezza, quasi al pari di una virtù, è anche capace di spingere il sentimento della paura fino al suo estremo. In merito è opportuno soffermarsi sul celebre scrittore statunitense Herman Melville, che, posando l’attenzione su un paesaggio innevato, parlò di una muta vacuità ricolma di diversi significati, non solo benevoli.
Per capire al meglio quest’aspetto, corre in soccorso il XLII capitolo del suo capolavoro, Moby Dick, in cui ebbe a chiarire proprio l’«incantesimo di questo biancore». Melville afferma che quei caratteri inebrianti che amplificano ogni cosa, pregni di vuoti, di illimitatezza e di silenzio contengono sia bellezza, sia, forse ancor di più, terrore. Del resto, nel romanzo, il bianco per eccellenza è quello del capidoglio contro cui si compie la caccia spietata guidata dal capitano Achab.
Di sicuro, anche in poesia il bianco è stato sovente utilizzato nei modi più disparati. Sopra ogni altra cosa, è la neve a contenere in sé quella fitta mole di significati capaci di destare da sempre vivo interesse.
In questo contesto l’obiettivo è concentrarsi sulla raccolta poetica Oltre la neve (La Vita Felice, 2022, pp. 68, € 12,00) di Antonio Corona che, come emerge sin dal titolo, prende le mosse proprio da quanto affermato finora. Infatti, nei componimenti l’autore si interroga su cosa voglia dire fare i conti con la purezza, anche e soprattutto compositiva. Così, nei versi che danno vita a ogni sezione in cui è diviso il testo viene evidenziata l’attività straziante, giocosa, regolare o finanche meccanica che può spingere un poeta a riempire di inchiostro un nuovo foglio.
Corona chiarisce come il tutto si compia a partire dalla necessità di colorare e dare un nuovo aspetto ai vuoti e alle mancanze. Sono azioni che tendono a far sì che il bianco diventi, al pari del silenzio in musica, non assenza, ma parte fondamentale della ricerca che si pone a fondamento di ogni vita.
L’utilità dell’attività poetica
Tutti i versi contenuti nella silloge che si sta prendendo in esame ramificano a partire dalla musicalità e dall’immediatezza. Sezione dopo sezione, il movimento poetico tende verso la costruzione di una ritmicità lessicale tale da fondersi proprio con quella neve che, volendo aggettivare le fasi della precipitazione atmosferica con Ada Negri, prima danza scherzosa e poi si posa stanca.
Così, la neve che sovente osserva Corona è, in primo luogo, pregna di rimandi simbolici. Infatti, si fa metafora non solo di purezza e di fanciullezza, ma anche di ritorno e di possibilità. Di sicuro, l’obiettivo primario del testo, chiarito ai lettori sin dall’Introduzione, è comprendere quanto possa rilevarsi utile l’attività poetica dinanzi alla passività della materia e alle brutture osservate nel quotidiano.
Coi suoi componimenti, l’autore chiarisce quanto una risposta soddisfacente sia possibile a patto di intraprendere un percorso che necessita di un continuo rapportarsi col mondo esterno e che si può concretizzare soltanto gradualmente. Di più: ogni fase intermedia di questo cammino presenta caratteristiche proprie che la definiscono. Del resto, di quest’aspetto sono testimoni in primo luogo i nomi dati alle varie sezioni della silloge (Sublimazione, Caduta, Riposo e Ritorno alla terra) che, non a caso, nella descrizione in prosa poetica che apre ogni sezione, legano sempre indissolubilmente l’attività creatrice dell’artista alla neve.
Occorre precisare che il percorso di cui si è fatto cenno è tanto collettivo, quanto individuale, ma si basa sovente sulla responsabilità dei propri atti. Di conseguenza, nella silloge ampio spazio è riservato alla sfera dell’io che, inevitabilmente, necessita diversi chiarimenti.
Di sicuro, in tutte le varie fasi descritte ci sono molteplici zone che presuppongono fare i conti col rischio. Corona evidenzia come sia necessario uno sforzo non indifferente per sciogliere i dubbi e le varie difficoltà a cui si può andare incontro. Questo bisogno emerge a chiare lettere nei versi di una breve composizione che si incontra nella lettura: «Cerca dentro i tuoi silenzi / la ricchezza del pensiero, / non è mai leggero il pane / capace di assorbire la zuppa».
Attribuire predicati agli esseri
Messi in risalto gli aspetti legati alla musicalità e agli obiettivi principali perseguiti nella raccolta occorre evidenziare che l’attenzione riposta da Corona sulla neve e sulla bianchezza non mira a realizzare una felicità da intendere come mero quietismo. Gli slanci poetici dell’autore non si distaccano da quanto, di volta in volta, osservato e non tendono verso una dimensione altra fatta soltanto di meditazione interiore.
Al contrario, la poesia di Corona risponde a una quantità notevole di stimoli specifici sia interni, sia esterni e, nel farlo, approda proprio in quegli stessi pungoli in modo rinnovato. Non a caso, nella sezione conclusiva l’autore chiarisce come il tragitto torni alla terra, sintomo palese di una ciclicità da cui non si può evadere.
Eppure, la metafora della neve, impressa in questa ciclicità, non è da intendere come una limitazione, come un’inevitabile chiusura. Infatti, la poetica di Corona assume i tratti complessivi di uno strumento utile ad attribuire sempre nuovi predicati agli esseri. Si tratta di edificare un campo in cui possa prendere corpo una rivalutazione sempiterna delle certezze. Questo sguardo, sebbene regolato da leggi naturali, è basato su un’accoglienza indefinita.
Pertanto, l’indefinitezza è inclusa nella finitudine. Sta proprio qui il bisogno della poesia, unico linguaggio in grado di sciogliere questo apparente paradosso.
I caratteri della presenza pura
Nella struggente e delicata Nevicata di Guido Gozzano, la neve, sonnolenta, «tutte le cose ammanta come spettri». A ben vedere, si tratta di quel «tacito manto» descritto anche da Umberto Saba. Corona, dopo aver messo in risalto i tratti più affascinanti della bianchezza, lotta proprio contro questo intorpidimento, contro quegli spettri melvilliani evidenziati in apertura.
Infatti, se, in un primo momento, la neve impone la sonnolenza a quel solito brusio della città, destando soprattutto meraviglia in chi la osserva, in seguito il silenzio si fa anche e soprattutto metafora di un peso increscioso contro cui scagliarsi.
È lì che le composizioni si sporgono con insistenza sulla realtà e ne riflettono gli umori, ne evidenziano le zone d’ombra, le sfumature del bianco che sfuggono a sguardi disattenti. Così, la poesia, pur restando in un campo altro rispetto alla politica, si fa inevitabilmente civile e denuncia anche e soprattutto le brutture del proprio tempo. Del resto, Corona chiarisce quest’aspetto affermando perentoriamente che: «La poesia è anche cruda realtà: la nostra».
In conclusione, può risultare proficuo affidarsi ai versi del poeta francese Christian Bobin che in una sua breve composizione afferma: «Che cos’è la neve? / Un po’ di freddo, molta infanzia. / La presenza pura». Oltre la neve è la ricerca insistente di mostrare – attraverso il linguaggio poetico, che diviene non solo utile, ma indispensabile – i caratteri di questa presenza pura affinché si possa concretamente afferrare una dimensione più compiuta.
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Sete
La neve s’appresta
a divenir tempesta
dal cuore che traballa
e che foce agogna
per ubriacarsi d’amore
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Chiedilo alla neve
Chiedilo alla neve perché ci amiamo:
si scioglierà per divenir sorgente
o muterà in ghiaccio che scalfiremo.
Poi un giorno diverrà vapore
e moriremo lievi.
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Cerca dentro i tuoi silenzi
la ricchezza del pensiero,
non è mai leggero il pane
capace di assorbire la zuppa.
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Cos’è la vita?
Quando anch’io me lo chiederò
sarà ormai troppo tardi:
scoprirò ch’è vuoto inspiegabile
che riempie ogni spazio rimasto.
Mario Saccomanno
mariosaccomanno@yahoo.com