TRA DIONISO E APOLLO
La poesia come dialettica
Stefano Vitale, La saggezza degli ubriachi,
La vita felice, Milano 2017
di Marvi del Pozzo
Il processo filosofico e poetico di Stefano Vitale porta l’autore ad un percorso di approfondimento che partendo dal suo precedente libro Il retro delle cose (Puntoacapo Edizione, 2012, ristampato nel 2018) insiste sulla necessità di non fermarsi alle apparenze, alle facili verità, alle incerte certezze del nostro esistere, ma andare alla ricerca, come Diogene col suo lanternino, del senso plurimo delle cose, delle sfaccettature, degli aspetti più ombrosi e malcerti della vita: necessità di visioni alternative, spiragli di un reale, forse celato ai più, ma non alle intuizioni di un poeta.
E’ molto rilevante il legame tra i due libri – Il retro delle cose e La saggezza degli ubriachi – per il rigore che vi è sotteso, per la continuità nell’indagine metodologica sempre più spinta, approfondita e dilatata a livelli atemporali, poliedrici, unanimi, nell’ultima silloge. Il dubbio come metodo, di cartesiana memoria, è la base della lucidità d’indagine del pensiero dell’autore, che sempre sorregge e fa da substrato alla poesia. Prerogativa di una poesia essenziale, contemporanea ma oltre ogni tempo, poesia che faccia emozionare, ovviamente, ma porti alla riflessione, suggerisca pensieri, analizzi la condizione universale umana, non si fermi all’incanto di una bella immagine, ad una descrizione, ad un’emozione personale fine a se stessa. Non si può prescindere da una “poesia pensante” e questo da Leopardi in poi e meno che meno ai nostri giorni.
Detto questo veniamo più specificamente al libro La saggezza degli ubriachi. Il titolo è provocatoriamente ossimorico (come scrive Alfredo Rienzi nella bella prefazione). Quale saggezza hanno ontologicamente in sé, se ce l’hanno, gli ubriachi?
Vitale sceglie come guida “segreta” il magmatico Bacco-Dioniso, la verità discontinua e a sprazzi dell’ubriaco legato alla passione, all’istinto, alla terra, al sanguigno, alla follia, all’ombra, all’errore, all’indistinto, alle contraddizioni, in una parola all’umano, piuttosto che all’olimpica serenità della luce, della limpidezza di un Apollo-Febo, cristallizzato appunto nella perfezione del canto adamantino. Luce della ragione contro il chiaroscuro degli istinti, suono angelico di violini o tumulto di ottoni, canto delle Muse o tamburi dissonanti di coribanti?
Bello questo titolo, suggestivo ed allusivo, fa pensare all’epopea greca degli eroi, dei miti: rievoca la Nascita della tragedia di Nietzsche[1], il contrasto tra l’Apollineo e il Dionisiaco da cui nasce appunto l’Arte, il Canto, la Poesia. Ma se è vero che l’Arte nasce dalla tensione tra questi due aspetti divini, la perfezione dell’Alto, del divino che attrae, e l’Umano con la tentazione delle sue zone ombrose, con l’essere avvinto alla Terra che soffoca, va detto che l’uomo, il poeta in particolare, vive di intuizioni, spiragli di verità, vive di dubbi; il poeta, soprattutto ai giorni nostri, non crede ad una esclusiva comprensione logico-conoscitiva della realtà. La saggezza è intuitiva e momentaneo il lampo fulmineo di Dioniso, è l’abbozzo di un istante di pienezza: siamo, come dice Vitale, “eterni dilettanti della vita”, “siamo fatti della materia dei nostri sbagli” per parafrasare la Tempesta di Shakespeare. Ma questa è la nostra forza: la fragilità dell’uomo che diventa appunto epopea nella ricerca del senso attraverso la parola poetica, la musica per quel tempo scandito di saggezza, di ebbrezza, di farneticazione, di passione, di dolore che segnano le nostre vicende umane. Il tempo appunto che è elemento determinante, che scandisce il nostro scenario umano e ne diventa il limite. E’ un libro che inquieta, anche se nelle ultime sezioni il tono si rasserena nelle epifanie dal terrazzo e nelle suggestioni dei momenti musicali: memorabile il testo suggerito da Images I e II di Debussy. Globalmente la percezione è di un’atmosfera piuttosto tesa e cupa, considerando le parole chiave, le immagini salienti, gli aggettivi che qualificano i sostantivi di riferimento (“fondo”, “detriti”, “fossili”, “anticaglie arrugginite” “rabbia e abbagli”, “marcire”, “istante sgrammaticato”, “sbilenco”… solo per rimanere alle prime poesie). Anche se l’autore non cede mai alla disperazione, è chiara l’inquietudine che emerge dai testi. E la poesia sembra nascere propri come forma di controllo delle inquietudini umane.
Tanti sono i riferimenti culturali sottesi ai versi di Vitale e in lui si verifica un fenomeno interessante. Certi scrittori e poeti, sono talmente introiettati nel modo di essere e di pensare del poeta che emergono naturalmente, quasi istintivamente nello scrivere. Basti un solo esempio: il tema dello specchio, uno dei temi-chiave di Borges. Lo specchio che duplica le apparenze: tema caro anche a Stefano Vitale, talora ripreso in questo volume per esemplificare il suo pensiero.
Mi piace a questo proposito riportare proprio un pensiero di Borges[2], perfettamente aderente ai versi di Vitale:
Tra poco mi preparerò per uscire, viso, capelli e ciò che lo specchio mi mostrerà non sarò io ma l’apparenza di me.
Chi siamo, come siamo non lo rivela lo specchio che rimbalza un’immagine alterata di me. In fondo viviamo una vita senza mai sapere come siamo: come mi vedono gli altri sarà sempre un modo diverso dalla percezione ch’io ho di me.
Brandelli e frammenti della nostra immagine corporea catturati da vetrine, vetri, specchi. Talvolta da fotografie.
Due versi: sono di Borges o di Vitale? Potrebbero a questo punto essere di entrambi:
Il silenzio che abita gli specchi
ha forzato il suo carcere
Dicevamo che l’atmosfera, sia pure tesa, non porta mai ad una visione pessimistica di disperazione. E tra gli altri testi mi riferisco al testo ispirato da Debussy Images I e II (vedi pag. 81) come simbolo di come dalla negatività possa nascere un’apertura positiva. Dai dubbi, dalle domande (in questa poesia ben sei sono i punti interrogativi ad indicare la pressante, defatigante, inchiesta dell’uomo alla ricerca di un qualche punto fermo sul senso dell’esistere), dalle insicurezze, dicevo, dalle delusioni, dalle speranze irrealizzate, dal negativo insomma nascono forse le pietre miliari anticipatrici di un futuro di trasformazione. Considerando la profonda formazione filosofica dell’autore, mi pare di percepire echi del pensiero di Theodor Adorno e del dibattito delle idee della Scuola di Francoforte.
Di queste preapparizioni positive si fa annunciatrice la poesia, con le sue illuminazioni, con le pause di silenzio, con le domande che si aprono su un abisso vuoto che non fa più paura perché simbolo della ricerca esistenziale umana sempre in bilico sul mistero, ma ardita ed irrefrenabile pure nella fragilità del dubbio. La suggestione di questo testo poetico mi pare crescere in progressione geometrica se abbiamo in mente le idee musicali delle Images che evocano per sinestesia tutta una serie affascinante di sensazioni visive ed olfattive, e paiono accordarsi in soluzione armonica, spontanea ed imprevedibile insieme, al ritmo introspettivo, musicale anch’esso, del testo poetico di Vitale. E’ un componimento perfettamente compiuto.
In conclusione, quindi, attraverso il percorso felice di quest’opera l’autore riesce a coinvolgerci nel suo clima d’arte dove il rasserenamento non è il prodotto di una bellezza equilibrata, classica o gioiosamente lirica, ma è fatto di fatica, di senso conquistato con sudore, con contraddizioni, con squilibrio, con intuizioni: una saggezza da ubriachi, appunto. Dove il pensiero c’è e profondo ma viene dopo, seguendo le intuizioni frammentate ma determinanti dei momenti di hybris.
Marvi Del Pozzo (2018)
[1] Friedrich Wilhelm Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi 1977
[2] Sullo specchio che duplica le apparenze si veda:
Jorge Luis Borges, La biblioteca di Babele in Finzioni, Adelphi 2003