Michele Moniello per Carmelo Pistillo
![]() Le due versioni del cielo
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autori: | Carmelo Claudio Pistillo |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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Articolo su blog L'ombra delle parole
POESIE SCELTE di Carmelo Pistillo da “Le due versioni del cielo” con un Commento di Michele Miniello (La vita felice,2014)
Carmelo Pistillo, scrittore e poeta, vive e lavora a Milano. La sua opera poetica è raccolta in: La locanda della chiglia (1986, Premio Camaiore Proposte – Opera Prima), L’impalcatura (1992, nota di Tomaso Kemeny, Premio Speciale Guido Gozzano), Quaderno senza righe (2008 – contenente “Lettera a Carmelo” di Milo De Angelis), I ponti, i cerchi (2011, note di Gabriela Fantato e Milo De Angelis) e Le due versioni del cielo (2013, postfazione di Michele Miniello). Per il teatro ha pubblicato Mabuse (2009, Premio Alessandro Fersen) e Passione van Gogh (2014, postfazione di Virgilio Patarini). Nel 2012 è uscito il suo libro di racconti: Ti dico che non ho sognato. È prossima la pubblicazione del libro Perché tu mi dici: poeta? (per un teatro di poesia), che raccoglie, con un taglio antologico, le due drammaturgie poetiche sull’Ottocento e Novecento curate con Antonio Porta negli anni ottanta e qui introdotte, commentate e chiosate dallo stesso Pistillo e da Fabio Jermini. La prefazione è di Maurizio Cucchi.
Per molti anni è stato direttore artistico di manifestazioni culturali e festival di musica, poesia e teatro, nonché critico teatrale e letterario.
dalla postfazione “La parola sovrana” di Michele Miniello
Ed eccoci al nuovo libro, Le due versioni del cielo, forse il vertice della sua produzione letteraria, che raccoglie poesie scritte dal 2007 al 2009. Va qui detto che le quattro precedenti raccolte hanno ognuno un dettato poetico diverso. Pistillo non è poeta che, una volta trovata la formula giusta, si limita a riaffermarla, anche se da orizzonti differenti. Ogni suo libro forse esaurisce un privatissimo vocabolario, una sorta di altra lingua contenuta e nascosta in quella precedente come strato più prossimo alla radice. Si tratta di accenti della stessa voce che rivela il senso alto della parola, sovrana, appunto. La sua è dunque una sfida continua nell’esplorazione di territori sconosciuti e nel percorrere sentieri impervi, senza timore per gli eventuali ostacoli e le asperità. Gli va dato atto del suo coraggio, peraltro premiato dai risultati ottenuti.
Sin dalla prima poesia, ho la sensazione di essere di fronte a qualcosa di moderatamente maestoso, moderatamente drammatico, irresistibilmente espressivo:
Adesso che sei vinto per sempre,
che lasci a me la tua versione del cielo,
cadendo al di là delle righe infelici,
anch’io esco dai libri e ti seguo
o forse non vedo più che ogni stella
è rivale di luce, tra le carte di un morto
ogni parola spiegata una curva sul buio.
Di nuovo la morte. La morte di un’altra persona spiritualmente vicina, dopo quella della sorella. Lo sforzo di risolvere in inno alla vita il canto di morte non è stato invano. Pistillo parte da un punto acquisito, il superamento del dolore, necessario perché la persona amata che non c’è più non sia solo fonte di dolore, ma punto di risalita per dare comunque significato e valore alla vita.
Saltata a piè pari la vicenda dolorosa, è come se Pistillo parlasse all’anima di chi si è congedato dal mondo, considerato un fratello, indicando l’eredità filosofica e umanissima da lui lasciata, la sua «versione del cielo» (una fulminante metafora della comune Weltanschauung), l’effetto di non vedere più che «ogni stella/ è rivale di luce…» e la meraviglia che «tra le carte di un morto/ ogni parola spiegata è una curva sul buio».
E subito inizia la liturgia (litania) con i toni dei salmi: «Cenere delle mie labbra», «Cenere sovrana», «Le ceneri amano le parole udite», «Le ceneri parlano la lingua fatale», «Dappertutto è cenere», «La casa rivive la propria cenere…».
E poi la saggezza biblica: «Quando / la madre ti guarda, il cielo è una rosa / e la tua vita un errore».
E poi la visione profetica: «Era la sposa bianca, la spina, / del grido la favola nera e divina».
E poi la rassegnazione: «Non più incurabile di altri / è l’ultima cena dei morti». Seguita da una scena titanica: «dove in sorte dal buio / una pietra dal fondo solleva e trascina miniere».
E poi la risoluzione calma: «Nel bagliore illeggibile / e ormai lontano delle lampare».
La seconda sezione, Canzoni sul treno e per l’urna, è un racconto che ha i tempi e le movenze del sogno, perché Pistillo scarta tutto quello che ritiene estraneo alla narrazione, e trattiene solo le parti per lui essenziali, estrapolate e lanciate nell’aria come le fontane colorate nei fuochi d’artificio che poi ricadono in rivoli spettacolari: «Suonano canzoni sul treno e per l’urna / i bambini innamorati dei sassi», «Così si consuma/ la bocca nel ricordo dei mondi mancati», «Canta da sola e sola rimane / a cantare la pietra», «dorme il juke-box», «i ricordi murano la velocità dei vagoni», «la madre che scorta / l’ultima figlia sul treno».
La terza sezione, Similitudini e intervalli, è una ballata di amore e morte, con una sequenza incalzante di similitudini che hanno il ritmo della recita del rosario, la cantilena avvolgente di una preghiera buddista: «Come aquiloni amore e morte», «Come nessuna scena amore e morte», «Come croce ritrovata amore e morte», «Come opera in versi amore e morte», «Come sigillo di cose incompiute amore e morte», «Come pronuncia salvata amore e morte», «Come i fiori migliori amore e morte», «Come questo midollo amore e morte». Amore e morte, dunque. Gli estremi che s’incontrano e chiudono il cerchio. E in questa strana litania «il grido dei fratelli» e i due poeti che «alzano lo sguardo al cielo / e incominciano a guardarsi». Due destini che s’incrociano e si guardano nello stesso specchio.
Con L’amica, ricorrendo a un accorgimento, come detto in precedenza, teatrale, il tono si fa colloquiale. Pistillo parte con i tempi verbali al presente («Quando ti alzi», «Cammini, guardi», «Dai forma al tuo dominio», «Ora siedi e ti mostri sola») per passare a quelli al passato («Ogni tua fibra / è stata un silenzio», «Eri estrema ma vigile», «Sono stati giorni poveri», «Io ero più simile a un matematico», «Io desideravo le tue labbra»). I ricordi si presentano ordinati, senza sovrapporsi. Tutto viene rivissuto con pacatezza, a tratti con compiacimento. Lei rifulge nella sua bellezza fisica e interiore, celebrata come creatura speciale. Ci sono nostalgia e rimpianto, ma il filtro della distanza consente alla memoria di guardare al passato con disincanto.
Sono stati giorni poveri
e la sera
non sognavo più,
però sentivo
nel mio corpo malato e matto
il dolore scendere e farsi quasi cielo.
Ma non volevo essere un astro spento
né la sua rappresentazione,
la replica impervia
e difficile che inciampa nello sguardo
e rimane lettera senza peso.
C’è un accorato abbandono, il riconoscimento di aver interpretato male quel legame, e le scuse sono timide, ma sincere. Il poeta fa un passo indietro e si assume tutte le responsabilità per la mancata corrispondenza degli affetti. Non gli resta che aggiungere che lei è «ancora viva», «Senza rughe fatali”», «Senza canti minori», «Come la primavera». Alza le mani in segno di resa, ma trova la rivincita di chi ha sempre cercato di guardare nella giusta direzione. Ma nell’ultimo verso, da smaliziato uomo di teatro qual è, Pistillo ci svela che la bellissima creatura di cui ha parlato non è altro che la Poesia. Ma certo! Per quasi vent’anni è stata dimenticata dal poeta, che ha preferito guardare altrove, per ritrovarsi, alla fine di questo “tradimento”, più povero davanti alla pagina bianca e con le sue istanze di vita mortificate dal tempo trascorso. Ecco che la Poesia è tornata, e Pistillo la descrive come una donna, una donna amata al punto di rinunciare per tutto questo tempo al suo amore, forse immeritato. Una lontananza quasi purgatoriale, ma necessaria. Che adesso finisce col suo ritorno, un ritorno senza più segreti.
Le due versioni del cielo sembra dunque indicare i due orizzonti guardati dal poeta, obbligato a oscillare non solo tra la vita e la morte, tra terra e cielo, ma tra due destini, quello vissuto e quello che non si lascia afferrare. Due dimensioni costitutive di una legge fisica, dove salire e scendere rispondono alla stessa urgenza e responsabilità, dove è ciò che non accade a determinare la “svolta”, è il vuoto che forse chiede di essere colmato per non essere restituito alle sue vertigini. Dove, come dice Thomas Bernhard nell’epigrafe al libro: «Questi due dolori, quello della testa / e quello del piede, messi insieme / costituiscono una malattia ben definita».
L’ultima opera di Carmelo Pistillo ci consegna la visione poetica di un «bivio sicuro», del confine e del mistero «che insieme tremano / nelle bocche chiuse», dell’uomo «che risponde con l’invenzione / dell’aereo in equilibrio / in ogni direzione struggente», del «sabato delle mani / che si prendono il cielo./
Un po’ più in alto, / si scambiano le due versioni» come «aliti avversari nella stessa dizione» o «stelle erranti che parlano tra loro, / e qualche volta brillano». È quello l’istante in cui la ferita si separa dal sangue.
Come ho già scritto altrove, Carmelo Pistillo può essere collocato in una posizione di primo piano tra i poeti italiani contemporanei; e quest’ultima, felice raccolta di versi, in cui l’autore avverte «che per farsi eterna la poesia / deve dare il brivido della sua durata», ne è l’ulteriore testimonianza.
Liturgia del fratello
I
Adesso che sei vinto per sempre,
che lasci a me la tua versione del cielo,
cadendo al di là delle righe infelici,
anch’io esco dai libri e ti seguo
o forse non vedo più che ogni stella
è rivale di luce, tra le carte di un morto
ogni parola spiegata una curva sul buio.
II
Cenere delle mie labbra,
cenere che cura ogni cosa,
dagli enigmi ai destini interrati,
eccentrici e ancora lucenti.
Cenere sovrana, mia sola e unica cenere,
eredità tutta, parola e cielo
della mia bocca, alchimia rivelata.
III
Sopra i Carpazi non ci sono degenze
ma eletti o dannati senza appello.
Come matite nere, statue
di cento abissi o mille fortune.
Intorno vedo candele. Tu
sei al centro, solo, però salvo.
Il tuo dio non snatura l’eterno riposo
ma governa i muscoli
fino a placarli. Ecco la carità!
IV
Le ceneri amano le parole udite
e più scure, il sacrificio
e il dono ritrovati nel soggetto
dimenticato nel teatro vuoto.
Le ceneri parlano la lingua fatale
che luccica come un testo a fronte
tra i sassi, amico breve del vento
che dispone silenzi tra i solchi.
Avvolte dall’alone del viaggio,
sono dissolte nell’elemento più bello.
V
Lasci pure vergini i nuovi sogni,
sconosciuti agli avvisi segreti,
lo sguardo alto e senza lacrime,
invano insonne, altrove molle.
Solo all’udienza dei vizi oscuri
ancora àgiti i sensi, ma quando
la madre ti guarda, il cielo è una rosa
e la tua vita un errore.
VI
Dappertutto è cenere, un’immensa
clessidra di sparizioni e oratori
inseparabili, grazia che riposa
sui fiori, e sfuma con la pianura
senza dediche e nomi.
è quasi stare tra molte guance,
se risolta nel candore avanza l’ombra
senza mai arretrare.
VII
Nei limiti premono forme
e moltitudini di segni
come spettatori morti.
La casa rivive la propria
cenere e assume i colori
dell’infanzia e dei fiori.
VIII
Quando hai aperto gli occhi
la fine era lì, apparsa da sempre.
Era la sposa bianca, la spina,
del grido la favola nera e divina,
era il varietà sontuoso fra le gambe
delle donne rimaste al confine:
la preda bionda, la bruna.
Era il dolore, il silenzio
che disegna le labbra
dell’amore per il nome perduto.
IX
Non più incurabile di altri
è l’ultima cena tra i morti
dove in sorte dal buio
una pietra dal fondo
solleva e trascina miniere
nel bagliore illeggibile
e ormai lontano delle lampare.