R. D'Alonzo per Anila Hanxhari
![]() Brindisi degli angeli
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autori: | Anila Hanxhari |
formato: | Libro |
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L’ECCEZIONE E LA REGOLA
UN ALTROVE DI LUMINOSI SENSI
Breve dissertazione sul libro “ Brindisi degli angeli” di Anila Hanxhari.
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Chi si trovasse a leggere per la prima volta i versi di Anila Hanxhari potrebbe essere abbagliato dalle forme verbali usate dall’Autrice e poi essere invaso da una sorta di profondo, liberatorio disorientamento. Ma non per effetto di un lampo di intensa visionarietà o di una semplice accecante immagine ( niente a che fare con le “Illuminazioni” dell’esprit de finesse, perché qui si tratta di altri orizzonti del cuore e del pensiero), ma perché nel corso della lettura vengono meno le tradizionali coordinate linguistiche comuni e si perdono del tutto le rassicuranti prospettive del canone poetico italiano.
Anche un frequentatore assiduo della produzione letteraria del Novecento potrebbe, con ogni probabilità, rimanere frastornato dal “sortilegio” stilistico che Hanxhari è solita praticare nelle sue composizioni.
Bisogna entrarci dentro del tutto in questa scrittura, lasciare le antiche abitudini e i comuni pregiudizi intellettuali per capirne la portata innovativa, per goderne la piena emotiva che ti travolge e ti purifica delle scorie prosastiche del lessico comunemente usato.
La sua è una sorta di azione maieutica che trae il lettore fuori dall’ovvietà della corrente comunicazione letteraria e lo conduce verso altri livelli di percezione, di immaginazione, di decodificazione.
In primo luogo colpiscono le immagini: una sequela di sostantivi disposti nudi e crudi nell’originale tessitura metrica, lessemi che si attraggono l’un l’altro, non secondo un evidente filo argomentante, ma secondo un flusso magnetico, quasi da “montaggio delle attrazioni” ( per usare un concetto di S. Eisenstein) che produce un ribollìo continuo di assonanze, dissonanze, metafore, ossimori e altre forme espressive.
In secondo luogo l’uso statico, a “folle” dei verbi. Le parole non sono messe sotto tensione dal sistema della coniugazione, secondo la precettistica sintattica cui siamo abituati: le forme verbali sono tratte a completare azioni che già si determinano in gran parte dall’accostamento, quasi ossessivo, funambolesco di nomi, pronomi, avverbi.
E’ certo che qui si tratta di un italiano non direi “esotico” e/o albanesizzato, ma di un italiano straniato, sghembo, trasversalmente interpretato affinché, nella sua innata duttilità, si configuri quale “conduttore”, munifico e magnifico conduttore di onde emotive impetuose, di cocenti fiati, furori addirittura e di piane, acquietate anse di desiderio, di rimpianto, bisbiglìi, suoni ancestrali e rassicuranti, dove anche la malinconia e il rancore si stemperano in una distesa luce di mestizia, di infantile innocenza.
Una contemplazione del “doppio” che diviene, nella scansione del verso libero, una vibrante ricognizione dei “vuoti a rendere” della lingua, una passionale giustificazione del “male” di scrivere o di vivere…
Corti circuiti metrici, scintille e spostamenti progressivi di senso, commistioni e frantumazioni di sonorità e modi espressivi, secondo un disegno consapevole della sua arditezza e anche, a volte, della sua intrinseca, insolente irriverenza nei riguardi di una tradizione che l’Autrice non disdegna di aggirare e, laddove è obbligata dalla perentorietà del senso, di padroneggiare a suo modo, vale a dire usando le risorse estetiche del proprio particolare, coraggioso/temerario, modo tutto illirico e femminile di trattare la scrittura; tutto ciò costituisce un armamentario sperimentale di profonda portata innovativa.
Formalmente dunque uno scontro tra un modo di pensare (non solo al femminile) sovversivo, ma anche e, soprattutto, balcanico e la prassi di un linguaggio ormai stereotipato e “scarico” che incontriamo sui binari della corrente produzione letteraria dei nostri scialbi giorni.
In questa nuova raccolta, dall’allusivo titolo “Brindisi degli angeli”, pubblicato nel mese di novembre del 2012, dalla casa editrice “La vita felice” di Milano, Anila Hanxhari offre al lettore un’incomparabile sequenza di scritti in cui il suo vissuto, il suo stile, il suo progetto poetico si cristallizzano in una sorta di canzoniere d’amore, improprio, ma altamente suggestivo. Un amore viscerale, senza limiti carnali né ideologici, per la terra d’origine, per i lasciti esistenziali che essa ha distribuito durante le stagioni dell’adolescenza e giovinezza. Un amore per la letteratura e per i luoghi che questa può offrire alle “rimembranze”, alle fantasie, alle utopie. In quest’ultimo ambito si proietta, ricco di colori e ombre, l’empito di un sentimento travolgente ed esclusivo nei riguardi di persone e di fantasmi – finzioni e definizioni poetiche del cuore – che Lei incontra nella personale vicenda di viaggiatrice, emigrante, esule e artista.
Come abbiamo già accennato, un poeta che deve esprimersi in una lingua diversa da quella materna dovrà fare i conti con due potenti realtà: il complesso di regole, usi e tradizioni del patrimonio espressivo della lingua d’origine, la cara calda lingua di casa, e il pesante, complesso, a volte impenetrabile statuto della lingua d’approdo.
Si avverte chiaramente nelle pagine di Anila Hanxhari il sofferto conflitto in cui ella si dibatte nell’attraversamento di altre “porte”, nell’intento di far rispecchiare i pensieri in una koiné di segni che, molto spesso, alla pressante, sapiente foga tessitrice si ribellano, ergendosi in spigoli alti, punte acuminate e significati altri che smussano e corrodono la primitiva lucida forma personale. Ne risulta un fragore epico di battaglia sotto le mura di cinta della cittadella letteraria, quasi che, stimolati dall’audace penna poetica dall’Autrice, i segni della nostra lingua neolatina si pieghino a una sorta di compromesso, acquistando una nuova identità, una nuova valenza e capacità interattiva, così che il verso possa uscire libero e forte per irradiazione di ritrovate energie, per una sorta di lievitazione rigogliosa di suoni e significati.
In “Brindisi degli angeli” ritroviamo un dispiegamento di effetti e accostamenti semantici che rendono il verso da una lato straordinariamente chiaro, dall’altro umbratile e velato, ma comunque sempre ricco di una plus-valenza stilistca, border-line, sempre dotato di un’aureola primordiale che gli dà una forza sconvolgitrice, rivoluzionaria nei riguardi del comune senso della connessione di lemmi e suoni.
Come indica il titolo, qui si tratta di un convito particolare dedicato all’amore: per la scrittura poetica innanzitutto, per la terra d’origine e per le conosciute e/o sconosciute rive d’autre mer, poi ancora per le persone fisiche alle quali si rivolgono le singole composizioni e le finzioni magistrali di questa poetessa albanese.
Ciò che colpisce, alla prima lettura, è lo sfavillìo di fonemi e lessemi, l’articolazione dei suoni su varie scale cromatiche, suoni di una purezza vocale unica, suoni di un altrove linguistico dove l’Autrice va ad apparecchiare il suo ricco tavolo di festa.
I convitati sono le lingue e le letterature: quella materna, quella d’adozione, quella anfibia che viene fuori dal personale, acuto uso che ella fa degli elementi espressivi, nel fluttuante caleidoscopico orizzonte della sua storicizzata e sofferta parole; sono ancora le persone, i simboli e gli emblemi della sua giornata comune, dell’Italia in trasformazione, sono i “reduci” di altre battaglie, i visionari d’amorose gesta, i bianchi cavalieri del nostro scontento, come io chiamo le disillusioni e le speranze dure a morire…
Dalla prima poesia, “Per te Albania”, fino all’ultima, “Posa l’eterno quando non muoio” affiora tra i versi un leit motiv aspro e maestoso, come i corsi del Drin o dell’Ades: l’empito di un amore per i luoghi della terra natia e per la sua storia. Da tale realtà geografica e sociale la poetessa ha ricevuto il dono più prezioso che possa aspettarsi un essere vivente, la lingua materna e la fisionomia personale; caratteristiche che la inducono a esprimersi nell’ambito letterario, traghettandola di nuovo, in un percorso circolare e concentrico, verso mete reali e immaginarie del suo paesaggio spirituale, verso quei luoghi familiari e di nuova appartenenza dove s’appresta il “laboratorio di formazione” della scrittrice.
La parola, quale elemento primordiale, la parola in questo caso è tutto. E’ come se l’Autrice la venisse scoprendo di volta in volta, riga dopo riga, in un rituale d’iniziazione e di conquista, come se ogni incipit o conclusione togliesse loro il velo dell’usura, dell’ovvietà, della convenzionale attribuzione di senso, e desse a ogni sillaba smalto e vigore: questa parola rivisitata (da bambina adulta o da adulta bambina) rende luminoso il suo modo di scrivere, visionario e nel contempo di una compattezza quasi materica. E’ una parola che si presenta alla sua particolare sensibilità femminile in tutto lo splendore arcaico delle “prime volte”, in una sorta di eco che rammenta l’effetto di ricordanza di cui parlano per un verso Leopardi, per un altro Platone, delle prime volte che l’orecchio le ha udite e il cuore le ha cullate, parole che si snocciolano in una continua “annunciazione” e si ricompongono in fantasmagorie metaletterarie. E’ una parola percepita con le viscere, prima che con la ragione, provata sulle labbra come gocce d’acqua sorgiva prima che nella mente e nelle griglie concettuali di un ritmo argomentante. Una parola che la stravolge, l’affranca dai legami di senso e dalle regole di uso corrente, una parola che si propone come pura immagine, sfaccettata in una sequenza di assonanze e rimandi, una parola che allude sempre a un’alterità extradenotativa. Questa alchimia di echi colori e suoni, questa energia aggregante, mentre illumina la forma immaginativa delle parole, rende la scrittura in versi di Anila Hanxhari distesa ed eloquente come un campione di raffinata arte figurativa: ogni poesia si risolve in un quadro di ciò che l’Autrice ha visto (o sentito) e che consegna poi non solo alle nostre orecchie, ma anche ai nostri occhi. Del resto negli anni Settanta una “metodologia” del genere non era stata già teorizzata da Angelo Maria Ripellino? Il quale diceva “non esistono cose lontane/ tutto è racchiuso nei globi degli occhi”( Poesie vecchie e nuove, N. Aragno Editore, Torino 206.) .
Dicevamo delle coordinate linguistiche. E aggiungiamo: degli schemi metrici e della versificazione libera.
Nelle pagine della raccolta non si incontra alcuna struttura usata dai poeti italiani del ‘900; o, meglio, l’Autrice non si avvale minimamente di sistemi codificati e di misure già sperimentate. Certo, un verso libero personale il suo. Non ci aspettiamo di ritrovare sistemati in maniera predeterminata sequenze di decasillabi, endecasillabi, settenari, ottonari, né tantomeno terzine, quartine o strofe composte, sonetti e distici caudati. Non appartiene al canone formalistico questa poesia. Semmai si avvale, impropriamente ma con alta tonalità espressiva, di effetti (non regole) usati in altri sistemi: pittura in primo luogo.
E ciò accade perché ci si trova nell’ambito di un sofferto conflitto: ossia il transito tra un orizzonte e l’altro… tra due terre, due culture divise da un mare che di stagione in stagione si fa pagina volubile, limpida coltre di memorie e di attese seduzioni. Possiamo dire che quella di Anila Hanxhari è stata finora una magnifica prova di poesia di “viaggio”, dono di un nomadismo senza requie, esito di antiche prove protratte in un laboratorio permanente che mette a prova di resistenza l’empito della forza immaginativa e della lingua (o delle lingue) che deve adoperare. Molti lampi di pericolose armi da taglio, bagliori di scudi, frastuono di scontri tra guerrieri reali e cavalieri monosillabici, bisillabici, trisillabici, tutti radunati sotto la cittadella della Nuova Espressione che va espugnata, senza compromessi, né accordi preliminari. Nell’agone moderno della città, di questa nuova città di adozione, l’Autrice vive e soffre le due facce della propria mutevole identità: due modi di sentire diversi, di pensare il verso, di strutturare metricamente il pensiero poetante.
Si avverte la feconda influenza delle letterature balcaniche e orientali, dalla russa alla neogreca: una cultura assimilata direttamente e indirettamente dalla coscienza artistica di questa giovane autrice che determina nella koiné del nostro italiano regionalizzato un fermento di ulteriori aggregazioni, di nuove unità espressive di inusitata perfezione.
Consapevole di queste facoltà acquisite durante l’educazione scolastica nella terra d’origine e più tardi nelle stagioni di studio e formazione in Italia, l’Autrice non esita a perlustrare i pericolosi luoghi della letteratura contemporanea, raccogliendo molti importanti successi, frutti delle strenue battaglie da lei sostenute su questi minati territori. Appare anche molto evidente, nel modo in cui Ella accosta sintagmi e semplici elementi grammaticali, una certa influenza del sentimento “pittorico” della scuola francese , dagli impressionisti ai cubisti, dai dadaisti ai fauve, e dello sguardo “generativo” (o degenerativo) alla Bacon. Tra parentesi, va detto che Anila Hanxhari pratica anche, con esiti lusinghieri, pittura e arti plastiche, in cui si sperimenta sin dall’adolescenza.
Come afferma Pina Allegrini, nella prefazione alla raccolta “ Assopita erba dell’Est” ( seconda pubblicazione di A. H.), Edizioni Noubs, 2001, caratteristica dell’Autrice è la capacità di saper creare, nell’ambito strutturale e semantico, degli scarti linguistici tra elementi formali del verso, tra i sostantivi e gli aggettivi, tra il segno e il suono, tra l’atmosfera e le figure che vi sono immerse.
In tutte le composizioni di A.H. si determina una sorta di livello asincrono tra grafia, ritmo e significanti e proprio in questo “scarto formale” (dove, tra l’altro, lo scontro tra le severe regole sintattiche dell’italiano e l’urgenza del “canto” interiore produce un alone di eccezionale rilevanza estetica) risiede la sua novità stilistica.
Anche Remo Rapino afferma che l’originalità del linguaggio usato e reinventato da A.H. sta nell’evitare il rischio di ogni restringimento usuale, scolastico, codificato dalla tradizione e nel liberare - anzi far sciamare – in sovrabbondanza sentimenti e riferimenti “materici” (di cose e luoghi), in un sincretismo di invenzioni/trasformazioni continue della parola e del verso libero.
Tornando al Brindisi”, non appare mai in questa raccolta una chiara progettualità di metri e strofe, né un contesto chiuso di formule espressive tratte esplicitamente dalla tradizione novecentesca occidentale. L’Autrice si rifà semmai all’uso del verso che ritroviamo nelle cantate popolari e in tutta la multiforme produzione dell’altra riva adriatica:, inserendo in questa pratica anche citazioni improprie, prestiti di immagini e invenzioni grammaticali che risalgono e cantastorie vagabondi e a poeti quali Maiakovskj, Brik, Chlebnikov.
Un agire questo che le offre la possibilità di pervenire a uno stile del tutto personale, al limite tra la “provocazione” insolente e la più innocente ricusazione delle regole acquisite dalla nostra tradizione letteraria.
L’entrare e uscire dalla lingua italiana nello stesso verso, nella stessa scansione e legamento di immagini, come un accurato lavoro a maglia (le metafore non sono ostentate, ma si formano all’interno del “colore” e nella successione di sostantivi che stridono e si “accapigliano” continuamente), fa si che nella stesura del verso i sintagmi, annodandosi tra loro, riescano a dare alle forme verbali una particolare rarefazione che le rendono meno importanti nei confronti di aggettivi e sostantivi. Allora il riferimento convenzionale alle cose e ai fatti si indebolisce, ogni certezza si arretra, perdendo il contenuto espressivo immediato, per dar luogo all’accumulo quasi ossessivo di parole-immagini, suoni-colori, in un crepitìo o, meglio, in un fruscio di unità di senso che abbraccia sia l’incanto lirico, sia il suo rovescio, ossia la cruda verità delle azioni, delle invocazioni-invettive, delle considerazioni amorevoli e/o disamorevoli in scenari di gusto cubista e/o surrealista. Così che il sovvertimento delle regole, legittimato da uno stile prepotente e ricco, rende quasi del tutto invisibile la trasformazione di certi verbi che nel verso sono i perni del discorso: i transitivi diventano intransitivi e viceversa, i riflessivi si arricchiscono di valenze “altre” e di nuove suggestioni.
E allora eccovi qualche esempio a proposito di questo intenso “canto” lirico, dove l’io appassionato e lucido sa muovere con febbrile attenzione le corde più intime e, spesso, le sbrindella, le spezza sulla fuggevole eppur presente “persona” del suo doppio, in un rimando speculare di situazioni “drammatiche”, di ambiente familiare o sociale (come nel ricordo degli esuli e de morti per mare).
Cominciamo con la prima poesia, “Per te Albania”: appare chiaro che la terra d’origine è una “Casa”, casa dell’anima, prima che rifugio materiale. Ma questa casa non chiude al mondo lo spirito del poeta, non tarpa le ali della conoscenza, bensì offre allo slancio vitale, ai progetti, ai sogni le “sue” particolari finestre, che sono appunto quelle della connotazione sociale, storica, antropologica, e lo fa dispiegando davanti agli occhi incantati dell’osservatrice ciò che un tempo era realtà visibile (anzi vivibile) e adesso immagine del ricordo, talvolta flebile sussulto di contenuto rimpianto.
Ecco perciò un’elencazione di cose che prendono, con la loro rilevanza materica, il sopravvento sul dispiegarsi delle azioni (quotidiane, familiari e straordinarie, sociali): è un fluire impetuoso di immagini, il cui ritmo viene determinato dalla pausa interna, a ogni fine verso (perché a ogni fine verso emerge la figura del ricordo, dell’azione, della formazione spirituale): casa (I verso), poi figlio, onda, gabbiani, casa di nuovo, temporale albero, di nuovo casa (che irrompe come nota dominante nel paesaggio rurale e urbano composto nella pagina e via di seguito con: mani, stagni, agnelli, vigneti, campana, bara, donna, cemento, bocca, piede, fino ai due versi finali, bellissimi per l’ambiguità linguistica, dalla quale si sprigiona un senso di interazione-commozione e un sentimento di lucida contemplazione, di estraniamento contemplativo, nella bellissima immagine di libertà che vien fuori dall’uso del verbo finale, in gerundio: per essere nella veduta/ rimanere pur andando.
Nella seconda poesia è la Patria protagonista: essa dispone, predispone quale sorgente di vita e di storia. “… che entri la luce dice la patria/ e si cancelli il naufragio…” In fondo (e lo si nota nella seconda parte, quella finale, dove – per la Patria - sono gli Angeli, sue creature, a parlare) il “sangue sparso” degli Arberesh e quello novello degli emigranti è tutt’uno nella contemplazione della morte e nell’intimazione dell’Angelo (che non è un angelo vendicatore, ma un emissario della Pietas di cui la patria si fa appunto portavoce nel tempo, come celebrazione di un passato semplice e “paesano” e comprensione di un presente difficile, dove il destino più comune dei figli è lo “spaesamento” e il viaggio…). L’empito civile qui si stempera in una quasi elegiaca ricordanza della morte “per acqua”, dove “… un sole rivoltato a lumaca…” si fa sale, alga, morte… Questo sole non “più nascente”, ma sole dell’Occidente illusorio e fratricida, si identifica con la morte (stilema del tutto insolito nella letteratura e nella tradizione popolare), morte come divisione dell’anima… E allora soltanto dal buio della notte (dell’abisso) può nascere un’altra verità, un’altra resurrezione, la vita, come suggerisce il detto latino in uso su certi architravi di chiesa: Ex tenebris vita. E in questa ricomposizione di destini, fausti e infausti, la madre-patria esorta a suonare “le arpe dell’adriatico”, per i figli che vanno, a “ricordo” degli angeli, figli migranti che portano per il mondo la linfa delle sorgenti.
Terza poesia.: qui si configura il profilo dell’uomo nuovo che la madre deve generare e la patria formare… Il simbolismo padroneggia l’andamento ritmico e le figurazioni : quello “stare all’ultimo piano con dio come l’autunno” e si alterna con lampi visionari, quali : "tu reggi le fiamme quando ti divorano i piedi” e, infine, la disillusione prodotta sia dal venire meno del sogno socialista, sia di quello “consumista” e liberista nutrito dalle giovani generazioni: “cosa te ne fai dall’aurora dell’infinito/ se il tuo corpo è un temporale sotto il tuo figlio”. Anche l’istanza gnomica alla fine si trasforma in uno tripudio di colori della mente, e il “brindisi” con i suoi riflessi di intelligenze illumina lo sconforto della inevitabile disfatta, adombrata sotto la veste del temporale che si annuncia attraverso i colori e le effimere fioriture della primavera.
Dopo questo trittico, programmatico direi, la Poetessa si avvia agile verso quella sua particolare, intensa ricognizione d’amore, attraverso i vari momenti della giornata e della storia: sono le comuni occasioni che le offrono il destro per procedere all’alchimia sapiente dell’immaginario e della composizione linguistica.
E allora abbiamo quel fecondo sbocciare di stilemi e immagini che caratterizzano, come il luccichio di una cascata sotto il sole, tutti i suoi straordinari versi. Di cui, per economia di tempo, qui ci limiteremo a darvene un rapido esempio, scorrendo rapidamente le pagine del volumetto.
“ … l’uomo si carda dalle luci”, pag.13; “quando il frutto si dona dalla bocca/ e le radici sono nella colomba tinta/ con il potere della veduta.”, pag.14; “e stropicciare di raso il calcagno”, pag.15; “tu mi avviti tra gli orizzonti della tua forma/ sono un sasso che gocciola”, pag.16; “ quando il tarlo m’indovina e mi cela”, pag.17; “Mi faccio danzare dalla corona di spine”, pag.26; ”e amo mentendo ciò che non ho…// … dio fammi foglia che si dà all’aria…”, pag 27; “Come posso averti ancora bimba/ tra fasce di mare e flanella/ inserti di bacio sul mento”, versi che mi fanno pensare all’antica statua posta sulla lunetta della chiesa di Santa Maria a Mare, preziosa opera quattrocentesca dei maestri lombardi, dove il volto della vergine si piega verso il viso del bambino che protende il mento verso la bocca della madre, “l’intarsio di bacio sul mento”, pag. 35; “ma le menti sono nel vento che nevicano”, 36; “sono dentro al tuo corpo e drappeggio”, pag.37; “tu grandini senza il maltempo”, pag. 43; “come assopisce il suono dell’uomo…// che sanguina gli alberi con un soffio…” pag.46; “mi fido della pelle che marcisce il pupazzo di neve”, pag.50.
Ecco ancora un esempio di bellissime “figure dell’amore”:
“… l’amore è galleggiare sulla tua stessa lingua e venire a galla”, dove la ripetizione della radice gall produce un’immagine unica, di incomparabile bellezza, e ancora: “amore è sbracciarsi e rimanere col fiato nel sangue”, “ ’amore sono i rami spogli/ quando l’albero è in piena stagione”, pagg. 20-21; “ma vivere amore è trafugare nella sete”, pag.41; “l’amore è non pretendere la mia scomparsa”/…se il battito è un fermapiedi/ il digiuno di un cane alla tua porta/ a quante ombre tu ricomponi il corpo/…tra i tanti piedi che ascolto…”, pag.53; “Tu ami te stesso intricato/ ai bulbi del fiore che annusi”, pag.55; “io do alla testa come la realtà”, pag.78; e questa indiretta citazione di Maiakowkj: “tagliano il cielo a colpi di denti”, che ci fa ricordare le “piogge inclinate” del poeta russo, i denti liquidi del cielo sulla città… pag. 79; “Ti amo perché non è un problema tuo/ arredare i miei occhi con le lagrime”/ …se l’amore è uno stormo di anni senza età”/…la libertà non è volare a ogni costo/ ma saper usare l’ala quando si è angelo”, pagg. 80-81; “quando l’amore è a mezz’asta”, pag. 82.
E ancora un surrealismo acceso di bagliori scenici: pensiamo a tanti “luoghi” letterari e scene di teatro dell’assurdo, pensiamo a Parigi, a Praga…: “Mi vuoi bene fino a strangolarmi con la luna/ mi fai uscire il respiro a battipanni/ mi sbatti tra le file come un’anatra”/ … mi infilo nella muraglia/ con il precipizio che tu mi regali…/ se ti lamenti della bellezza sussurrala”, pagg.84-85.
Di nuovo un topos dell’immaginario poetico figurativo del novecento, da Klimt a Munch.: “Riconciliamoci con la morte che rema i cari/ con le mani che disegnano vento/… la morte non invecchia germoglia”, pag.86.
E infine i tre versi finali della poesia di pagine 87: un endecasillabo, un dodecasillabo, un settenario, che configurano un autentico slancio di passione, la luminosità infinita dell’anima, l’incessante urgenza di donarsi senza condizione alcuna: “se è vero che possiamo anche andare/ il miracolo dell’amore è osare/ essere possibili”.
Poi la trasformazione di immagini consuete in altre dinamiche e allusive: “siamo in marcia liquefatti/ il naso all’insù/ gli occhi all’indentro/ con la coda di pesce/… gli dei che ogni tanto cadono/ da un neonato che a gattoni/ fa crollare la bufera”, pagg.89-90; “s’invecchia per aprire la porta alla serenità/ con un cane incarnato tra le vertebre”/… e con la morte non andrò via/ cadrò in ginocchio come una radice”, pagg.93-94.
Quanto abbiamo detto finora, proprio perché dettato da esigenze di sintesi, non pretende di esaurire il discorso critico su questa raccolta di versi, ma al contrario vuole solo mettere sul tavolo alcune chiavi di lettura, al fine di poter consentire ulteriori più esaustive ricognizioni sia linguistiche che estetiche. Abbiamo voluto stimolare il lettore ad addentrarsi senza pregiudizi di sorta nell’universo di questa autrice che, come afferma Maurizio Cucchi, è “una delle voci più attendibili e mature della nostra giovane poesia”.
Possiamo perciò concludere con l’esortazione del grande poeta palermitano: “…Poesia, non morire/ nell’accigliata baraonda/ delle formule governative” (°).
Angelo Maria Ripellino, “ Autunnale barocco”, pag. 50.
Ortona-Lanciano 7-11 gennaio 2013. Rolando D’Alonzo