R. Pacilio per Giovanni Turra
![]() Con fatica dire fame
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autori: | Giovanni Turra |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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Su Sanniolife, Rita Pacilio per Giovanni Turra - Con fatica dire fame
… ‘Le opere d’arte belle – i grandi romanzi, i capolavori della poesia – aprono e fondano mondi; e, così facendo, si danno da se stesse la propria regola. Poco importa che si spalanchino sul senso drammatico della Storia e dei conflitti sociali o s’inabissino nell’analisi più minuziosa e profonda dell’animo umano, procedano allargando gli orizzonti o s’intensifichino sulla verticale dell’Essere. Quella regola che i critici, ogni volta, si provano a identificare, per forza dell’immaginazione e intelletto, come si identifica una firma autentica, accordandovi a ritmo la danza dei propri fantasmi interiori. Scriveva magistralmente Kant a proposito di questa regola: “Il genio è talento (dono naturale), che dà la regola all’arte. Poiché il talento, come facoltà produttrice innata dell’artista, appartiene anche alla natura, ci si potrebbe esprimere anche così: il genio è la disposizione innata dell’animo (ingenium) per mezzo della quale la natura dà la regola all’arte”. Ciò significa che, se il genio “è il talento di produrre ciò di cui non si può dare una regola determinata”, esso è, innanzitutto, “originalità”. Kant definisce il genio come l’ “autore” d’un prodotto che egli deve sicuramente a se stesso e alla sua attività creatrice, pur ignorando “come le idee se ne trovino in lui”, senza che poi mai abbia la facoltà “di fornire altri precetti che li mettano in condizione di eseguire gli stessi prodotti”.
Parole che potrebbero anche valere come un tentativo di risposta alla vessata questione con cui s’è iniziato questo saggio: riproponendo a un livello puramente trascendentale – ben oltre la dicotomia tra vita e scrittura – il problema dell’individuazione di una firma, di un etimo spirituale, che ci consenta finalmente di distinguere, che so, Joyce da Proust. Dopo quanto s’è detto, nessuno ci verrà a chiedere, almeno spero, perché si debba giudicare la poesia, perché non ci si limiti invece a “crearla e sentirla”, per parafrasare il Croce d’un saggio del 1936, La poesia appunto. Mentre pare interessante domandarsi, non senza celia, quali possano essere le motivazioni per cui uno, invece di farsi monaco o guerriero, attrice o calciatore, possa decidere di farsi critico militante. Si converrà: ce ne vuole davvero, per fare una scelta del genere. Scrive Cesare Pavese in una nota del 13 settembre 1936 del mestiere di vivere: “Tra i segni che mi avvertono esser finita la giovinezza, massimo è l’accorgermi che la letteratura non mi interessa più veramente. Voglio dire che non apro più libro con quella viva e ansiosa speranza di cose spirituali che, malgrado tutto, un tempo sentivo”. Letteratura e giovinezza, indissolubilmente legate: laddove la giovinezza coincide con una “viva e ansiosa speranza di cose spirituali”. Sarei più radicale: e sostituirei al termine “giovinezza” la parola adolescenza. S’è parlato di opere che aprono e intuiscono mondi: sconquassando le nostre esistenze. S’è detto di uomini, i critici militanti, che quei mondi sono disposti a percorrerli e abitarli. Ma non è proprio la suprema disposizione dell’adolescenza che, presto, con la maturità, quasi tutti abbandonano? La disposizione a leggere un libro “come se” ti possa cambiare il mondo. Il critico militante aspira, mercé la ragione, a uscire il più rapidamente possibile dallo stato di minorità: lo sappiamo. Epperò, proprio come un lettore adolescente, continua a sperare che i libri possano cambiargli la vita. E così, in questa condizione ambivalente, il critico militante conduce la sua esistenza, la patisce, come un implacabile ossimoro’ … (La ragione in contumacia – La critica militante ai tempi del fondamentalismo – Massimo Onofri, Donzelli Editore, 2007)
Leggendo alcuni libri di poesie del catalogo de La Vita Felice, tra cui Con fatica dire fame, 2014 di Giovanni Turra, il lettore colto e scrupoloso si imbatte in osservazioni interessanti che possono riportare alla nota di cui sopra che ben documenta come va letto e aperto un libro di poesia e, soprattutto, cosa deve ‘accadere’ al lettore/critico militante quando si trova di fronte a un testo d’arte. Per questo motivo apprezzo molto il lavoro coraggioso di editori, come Gerardo Mastrullo, studioso delle peculiarità dell’esperienza della parola classica, il quale è sempre alla ricerca, nella realtà contemporanea, di cellule poetiche di qualità.
La poesia, va da sé, affascina e rapisce, infatti Stefano Raimondi ben sottolinea nella prefazione: ‘Poesia colta da un ampio dintorno d’esperienze, che sanno come ospitarci per grazia e onestà’. Turra, monitorando il proprio tempo, si riappropria dei luoghi e della memoria con una delicatezza lirica sorprendente e creativa testimoniando la complessità e, spesso, la desolazione sociale del quotidiano. Bisogna amare molto gli esseri umani e la vita per entrare nelle cose e nelle descrizioni delle emozioni; bisogna aggiudicarsi la conoscenza della storia e del suo ampio concetto vita/morte – dilemma inaccettabile, ma determinazione emblematica essenziale e necessaria che ricolma ciò che è percepito come razionale/umano da un lato e ciò che è poetico/filosofico dall’altro – per avere l’auto-invenzione responsabile della parola. Il poeta riconosce i suggerimenti ereditati dall’autenticità della scienza linguistica che non è solo scienza del cuore, ma versificazione specialistica, forma elaborata del pensiero che si esprime in ritmi e schemi liberi, elaborati e meticolosamente convertiti nel significato che trascrive gli atti concreti del reale.
dalla sezione SUPERFICI
Superfici
Non c’è sguardo che fissi la mia nuca
ma un’altra nuca ancora,
seduti come siamo,
lo sconosciuto e io,
dentro il gazebo che fa vela
a Treviso, in Piazza Pola.
Impareremo a decifrare,
immobili entrambi e premurosi,
l’orografia dei corpi,
le superfici vaste,
le nostre schiene
come tabulae incisae.
Insetti ermafroditi a pelo d’acqua
che si toccano da dietro.
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