Raffaele Ferrario per Gabriella Montanari
![]() Arsenico e nuovi versetti
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autori: | Gabriella Montanari |
formato: | Libro |
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“Getto dopo getto, arrivare alla conclusione che forse, da piccoli, due sberle in più non avrebbero fatto male.” Sta in quel forse, forse, quella lieve deviazione dalle sovrastrutture borghesi ed è lì che stanno anche alcune velate memorie di dolore. Già! Perché una femmina è complice della notte, che in lei mente e in lei dice la verità; che di lei è matrice e con lei si allea. “Complice il buio” ci si ubriaca di presente organico e mnestico. Pisciar fuori di sé allora un po’ d’ammonio, “qual brezza che ti muore sui glutei”.
La ribellione, l’invettiva, l’attacco, l’asprezza, il verso fuori dai denti, a muso duro contro il patriarcato. Ecco fatto! È doloroso, doloso, virale, come un’intossicazione da veleno. Nella vittima dimora il carnefice ma il triangolo lo chiude il salvatore.
Lo stesso corpo di dolore che ‘piscia’ e scrive, è chiaro sin dall’inizio: specie di rotta trinità interiore, fatta e strafatta di papa-padre-padrone. Papà pure con incipit favolistico, come fosse lo sconosciuto dal quale non accettar caramelle. Qui c’è come una volontà di far male che non riesce però a nascondere lo stare male e per quanto il lettore ‘borghese’ arrossisca e inorridisca, mentre quello aperto intristisca e ne sia colpito, è uno ‘starsi male’, dove la vendetta si mescola ai rimorsi “e magari quel che mi spetta”. È un dolore che picchia e che paralizza ma “l’orifizio anale non è degno di menzione”.
Anche “l’invidia va dosata”, c’è il rischio della saturazione, dell’inflazione psichica, della deflazione, “tanto, prima o poi, li vendo al chilo...” quelle palingenesi ossificate, tutte quelle incontinenze di poveri geniali cristi, con croce di legno a traino e chiodi ferrati nelle tasche del mestiere. Poi la dirimpettaia resta incinta e «ci son passata anch’io, cretina...» è una chiusa che rimette ordine nel tempo, fa due conti più proustiani che pascaliani, aggiusta quegli sguardi mica tanto ordinari da rispettive cucine, “separate da una torre d’aria”.
“DAY-HOSPITAL” rappresenta, a mio avviso, il testo cuore del libro. Altra poesia rivelatrice di sé, tra speranza e redenzione; tra vita e morte; tra malattia e salvezza. Essere nati per sbaglio, se lo si crede, logora e divide. Qui è un incubo e dall’incubo ci si sveglia. Ci si sveglia sempre.
Se la raccolta, nel suo compleso, ha un difetto – naturalmente solo in relazione al mio sentire – è quello di eccedere talvolta in termini scurrili. Enfasi forse dovuta a una volontà di rendere ad ogni costo una materia incandescente, con il pudore di mantenere sotterranei emozioni e sentimenti diversamente meno addomesticabili. Come si percepisse una paura di esporsi troppo, camuffata da linguaggio acceso e mai sulla difensiva. Evidenzio ciò, non come anomalia in sé ma come riscontro percettivo.
Da qui in poi, a una prima lettura, sembra che ogni contenuto si apra al lettore. Torna e ritorna il padre: “non son fiera di versi che un padre non possa leggere / senza maledire il giorno in cui il suo sperma mi ha eruttata“ (p. 36); “mio padre da giovane sembrava persino uno perbene” (p. 38); “sparo due fregnacce sul padre amato e disprezzato” (p. 51); “e chiedermi se avrei provato anch’io quel senso di trionfo / se fossi andata a letto con mio padre” (p. 72).
L’amore diventa un gran farabutto e “resta la superficialità delle promesse / che i maschi soffiano sul collo delle femmine, / prima e durante l’accoppiamento” (p. 73); “conoscevo un uomo / l’ho divorato / e mi è rimasto in bocca / il sapore avariato / dei cibi scaduti.”
Un libro forse pensato anche per ‘vendetta’; scritto non con, ma dalla rabbia, dal risentimento, dal rancore, dalla delusione, dall’odio-amore. Lo spettro emotivo risulta scomodo ma ricco; certo con particolare attenzione a le mal de vivre ma dosato con pillole di amara ironia, di sarcasmo, di realtà dalla natura spesso grottesca e assurda. Una curiosa e difficile voce da ascoltare, a denti stretti e cuore scoperto. Sarà in questo: “THE END” un finale perfetto, lapidario e sospeso nel proposito “che ci siamo inferti / giocando ai piccoli chirurghi.” L’Italia, credo, è meno pronta della Francia per un libro così duro.
Il libro è sì provocatorio ma è anche di una sofferenza viva, la quale - temo - possa essere scambiata per attacco indiscriminato contro il maschio. Due le ragioni principali: 1) In larga misura la società italiana è ancora di stampo patriarcale e cattofascista. 2) Il registro dell'ironia amara, del sarcasmo, dello sberleffo, della "cattiveria" artistica, non è compreso, anzi è osteggiato perché, di fondo, l'Italia resta un Paese di moralisti. Se poi è una donna a darsi tanto da fare, si possono immaginare le reazioni, e di potere, e sotterranee. Seppur io possa ingannarmi, a me viene naturale cogliere questa scissione presente e persistente: maschio-femmina / uomo-donna. A mio avviso, chi fosse portato a leggerlo come battaglia sessista di scontro aperto tra il maschile e il femminile, si sbaglierebbe. Io vi ho letto sì uno scontro, sia personale, sia transpersonale, rivolto però alla divisione esistente tra matriarcato e patriarcato, dove per matriarcato si intenda il piano inconscio: la luna; e per patriarcato quello cosciente: il sole. Che qui non si facciano sconti, non è necessariamente una maledizione. Che si sia saputo scrivere di cose terribili è una benedizione. Mi resta l'impressione originaria, quella di un'opera ad alto impatto emotivo.
Raffaele Ferrario