S. Aglieco su Pecora
![]() Nel tempo della madre. Epicedio
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autori: | Elio Pecora |
formato: | Libro |
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di Sebastiano Aglieco
articolo pubblicato su Computu re vivi
Elio Pecora: quel sogno scolpito nel cuore
Si apre nella forma della lamentatio questo epicedio in ricordo della madre, per poi proseguire, nello spazio di una manciata intensa di versi, con la descrizione di una maschera funeraria, cruda e senza appelli nel suo realismo:
L’arco dei denti nel bicchiere,
ecchimosi sugli avambracci,
livido il cranio, le dita
palpano il fazzoletto,
le pupille velate
non di riso o di pianto.
p. 17
Assolto questo dovere, il poemetto dichiara velocemente l’intenzione di un racconto. La madre troneggia al centro della sua stanza/mondo, abitata da un microcosmo di vere icone crepuscolari: “una sedia impagliata/il collare di un cane,/un abito a fiori accollato” p. 19; “il santo bambino/che, nella campana di vetro,/dalla rupe di sughero pesca/il cuore di rosso corallo”, p. 18.
Attraverso una finestra, poi, gli echi di un’intera epoca; una canzone: “son tornate a fiorire le rose”…”un trillo di mandolini”…”il merlo mai stanco/ della stanza di fronte,/lo scampanio della chiesa-garage,/le risa, le corse/degli studenti di sopra”, p. 18/19.
Un epitaffio, soprattutto, nei versi di una romanza: “Quel sogno scolpito/nel cuore”, p. 20, nell’intento di sottrarre al tempo, nel modo delle antiche lapidi funerarie, il racconto del compito, lo stesso compito che sempre i vivi devono ai morti per pacificarli. “Non hanno numero i giorni,/non ha più alba la notte,/là nel cupo fondale/le terribili porte”, p. 20.
Questo allontanamento della madre sul “legno in corsa sulle onde”, prepara la grande scenografia del ritratto di famiglia. L’epos si dirama attraverso l’immagine più forte: “Nacque nel segno del Toro/melanconico, torvo”, p. 21. Ammiriamo così la descrizione puntuale di un ambiente; da una parte i nobili, i signori - “il padre usciva a cavallo/con la sella d’argento,/alla figlia bambina/donava datteri e arance” - p. 23; dall’altra i servi: “donne scalze, sfiancate,/con fascine di sterpi”, p. 22. E la casa, soprattutto, il regno sicuro così descritto:
le scale, i cortili, i granai,
le pile di pietra dell’olio,
le logge, gli armadi, gli odori
delle dispense e dei tini,
le stalle, il canile, i pollai,
l’inverno dei lupi, il cinghiale
di carni frolle, dolciastre,
ucciso fra i meli e le arnie.
Voli fra i rami squittii,
i fichi, i peri, le ortensie,
il nespolo, i melograni,
le rondini sulle cimase,
i greggi, gli scampanii
prossimi, dietro le siepi.
p. 22
Questa fitta enumerazione ha la funzione di definire un ritratto psicologico della madre e prepara la zona più oscura del canto, quella in cui si richiede il racconto di una favola cattiva, di un gioco alle bambole in cui i ruoli crudelmente si scambiano – “il lupo blandiva l’agnello/per divorarlo di baci”, p. 29 – e in cui la ninna nanna pare il canto di una parca costretta a tessere e scucire la tela della vita.
Ecco presagire, dunque, la nascita di un nuovo figlio, “il testimone, ignaro/l’allegra devianza”, p. 30. Ecco sempre il canto, come una specie di basso ostinato, grave e delicatissimo insieme, a rincorrere il tema del destino e degli adii. “il figlio/ora cantava anche lui,/e nella voce chiudeva/una diversa pena./Ma è un’altra storia da questa”, p.31.
Il canto rimane anche dopo. Anche dopo che “resta una ressa di oggetti,/anche rotti, perduti,/nei cambi di casa,/lungo un viaggio”, p. 33. Resta sempre “il santo bambino (che) pesca/il cuore di rosso corallo”, p. 34. E una domanda: “Se tutto fosse una prova/da ricominciare?”, p. 35.
Apparentemente costruito intorno a un tempo cronologico, il lento smemorarsi del corpo della madre “verso quel niente del niente/che chiamano morte”, p. 40, il poemetto in realtà sembra descrivere la resistenza di un corpo che sempre ritorna dopo ogni assalto del fato e canta una sua possibile e disperata rinascita. Una madre che ha edificato il suo corpo aggrappandosi a relazioni parentali forti eppure fragilissime, in cui un cuore sacro e palpitante è tenuto sotto una campana di vetro come a preservarlo da una caducità. Nell’ultima scena il figlio grida contro la madre: “entra, socchiude le imposte,/la siede in poltrona,/è quasi un vecchio,/si pretende felice,/grida che è stanco,/s’infuria, la maledice”, p.38. A questa madre, in segno di rispetto e nella distanza che si deve a uno sguardo diretto e impietoso, ci si rivolge in terza persona: “Sua madre ha la sciarpa nera/di quando tornava/dalla prima messa/e la svegliava nel sole/odoroso di menta”, p.18.
Sebastiano Aglieco