S. Guglielmin per C. Bagnoli
29.04.2013
![]() Casa di vetro
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autori: | Corrado Bagnoli |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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Stefano Guglielmin per Corrado Bagnoli - recensione su blanc de ta nuque
lunedì 29 aprile 2013
Corrado Bagnoli
In Casa di vetro. Poema in tre quadri (La Vita Felice, 2012), Corrado Bagnoli mette sullo sfondo l'Italia del boom economico e una Milano fredda eppure epifanica, dove s'impara un mestiere. Sceglie la via del racconto in versi e fa benissimo perché ciò gli permette di far circuitare il passo lirico con quello narrativo, l'immagine memorabile con le strutture discorsive, necessarie a organizzare, in primo piano, le sequenze di una vita che potrebbe diventare un modello antropologico, dove la virtù si combina con il talento; ma non si tratta di una favola edificante perché il protagonista dai capelli rossi, figlio di povera gente, esiste davvero. E' il pittore Pierantonio Verga, nella cui biografia Bagnoli ha letto la propria vita, la propria scrittura.
Casa di vetro è un libro sull'amicizia (tra il poeta e il pittore) e sulla solidarietà: c'è don Orione, "un prete piccolo, dentro / una tonaca nera più grande di lui", che ha fondato il Cottolengo a Milano; e c'è un architetto, che racconta a sua moglie di viaggi di lavoro interminabili, mentre invece va a intrattenere i degenti del Cottolengo, suonando sino a nove strumenti.
Casa di vetro è anche un libro sull'arte, sulla differenza tra essere pittori ed essere artisti. Il maestro è Lucio Fontana, personaggio anche lui, qui, che spiega a Pierantonio: "Il pittore è uno che fa il quadro, prende / i colori, i pennelli e fa il quadro. L'artista / invece li adopera, li fa diventare una lingua. / Bisogna smetterla di parlare di materia: / o c'è una lingua, o si scrive e riscrive il mondo, / oppure non c'è niente. La noia del quadro". E Casa di vetro è anche un libro sul guardare, sul guardare il mondo, anzitutto. Arte e poesia sono uno sguardo particolare sul mondo, ci dice Bagnoli: "Tutti i pittori cercano di aggiungere / qualcosa, di arrivare, attaccando qualcosa / a fare il quadro; l'artista mette subito quello / che viene dopo", ossia il mondo con le sue voci. "La città era un buco caldo" con le sue parole dentro e fuori dai bar, dalle gallerie, "un polmone, un respiro / fatto di fiati che s'incrociavano". E' lì che il poeta deve guardare per trovare la lingua. Una lingua plurale come plurale è la dimensione del vivere, che tuttavia converge nell'unica direzione possibile: il bisogno di accoglienza. Dice bene Davide Rondoni nella prefazione: la parola chiave di questo libro è "accogliere" proprio perché sempre, e qui in modo esplicito, la scrittura tesse un nido dove il mondo trova "ricovero e messa a fuoco, e dunque altra vita".
Pierantonio da giovane si muove in una Milano non troppo differente, nel tempo e nello spazio, da quella in cui agisce Carla Dondi, la ragazza di Pagliarani; ma differenti sono i loro caratteri: la seconda è rassegnata, il primo combatte invece per far vincere la bellezza che è in lui. In questo modo, per via esemplare, Bagnoli apre alla possibilità di vivere una pienezza esistenziale anche nel tardo capitalismo, conservando l'autenticità, per quanto minacciata; Pagliarani invece, negli anni cinquanta, portavoce dell'impegno neoavanguaristico, prelude a un futuro dove non c'è scampo per i vinti, se non omologandosi ai ritmi crudeli della città industriale. Difficile dire chi abbia ragione, se l'ottimismo di Bagnoli o il pessimismo di Pagliarani. Di fatto, ragazze come Carla Dondi se ne incontrano ancora in giro, ma molto più disilluse o integrate; e magari, uomini come Pierantonio ragazze come Carla le sposano. E infatti, nel Quadro due, Laila le assomiglia, lei che "è un soffio bianco di diciannove anni dentro / un vestito a fiori, dietro due occhi che hanno visto / solo libri e mare, dietro un naso dritto che taglia / il caldo del negozio e della pianura" e che, da Rimini, andrà con lui a Milano e ci vivrà insieme tutta una vita.
Vicino a Casa di vetro, per l'afflato corale e creaturale, metterei La forma della vita di Cesare Viviani: in entrambi i libri si costruisce un affresco della vita lombarda, letta attraverso esistenze ordinarie, ma tenaci nel confermare che la vita va vissuta, qualsiasi destino essa ci riservi. Dalla vita, direbbe Bagnoli, c'è da tiragli fuori il pane e il vino. In ciascun essere, ci insegnano i due poeti, c'è un nucleo che rimane intatto, che nessuna struttura economica riesce a conformare, un nucleo naturale, astorico, frutto di una stratificazione ancestrale, che ci fa simili all'uomo della pietra e artisti, tutti, nella misura in cui riusciamo a trasformare lo sguardo in voce. Per questo, come scrive Bagnoli, l'altra parola chiave è "offrire", dare al mondo le parole e la carne per comprendersi e ripartire.
Accogliere e offrire sono due verbi cristiani (in Casa di vetro, Dio è presente come padre carezzevole); Bagnoli ribadisce le proprie radici piantate nella croce, ma in una complessità dove, appunto, Dio non è presenza scontata, bensì – come egli riferisce nel saggio Il tempo, il linguaggio, il divino (in AA.VV., La poesia e la carne, La Vita Felice, 2009) – rivelazione carica di mistero, che tiene l'uomo nella sua dimensione interrogante, essenzialmente interrogante. Per quest'ultima ragione, di radice heideggeriana (scrivere è rispondere al Dire originario) e jabesiana (si pensi a Il libro delle interrogazioni), sono convinto che accogliere e offrire siano due verbi imprescindibili per chiunque voglia praticare la poesia nella profonda semplicità del proprio esser-caduco. Questo è il compito dei poeti, oggi, i quali, meglio di chiunque altro, sanno tramandare l'esperienza più intima dell'uomo: l'incontro sorgivo e destabilizzante con il mondo a partire dalla propria, irripetibile, finitezza.
dal Quadro uno
La bicicletta gialla gliela aveva regalata
suo padre, ci andava a scuola e nel campo
a giocare. Gli altri avevano in mente Rivera,
si tiravano giù i calzettoni e si lasciavano
andare a qualche dribbling di troppo; lui,
che non aveva nemmeno il fisico giusto,
si portava dei guanti e tirava col piede
una riga tra i due pali di legno, una specie
di tic che aveva imparato da quelli più grandi,
una magia per dire che non si passava,
forse qualcosa di più, una solitudine segnata
in terra, dentro il groviglio di gambe
che avevano solo l'idea di tirare la palla
oltre quella linea che lui custodiva,
una specie di confine del mondo, muro
che si alzava di mani e di scatti, di ginocchia
spellate la sera che sua madre, già piegata
della secca parola che l'asciugava dentro,
si piegava a lavare via, a guardare come
si guarda un sacrilegio: «Come, te che c'hai
le gambe buone te le massacri apposta?».
Poi gli chiedeva se aveva vinto, se almeno
quel sangue lì era servito a qualcosa,
se aveva portato la bicicletta nel portico,
se doveva fare ancora quel compito, che la scuola
non era mica meno del pallone. E di andare
a salutare suo padre, gli diceva, che stava
sui conti dei ricchi, che li faceva tornare.
Quella sera lì, però, lei non si era piegata
davanti alle sue gambe, che lui quasi, adesso,
ne provava anche vergogna, che era grande
e non era il caso che lei continuasse così.
Quella sera lì suo padre non c'era. Dov'era?
Lei sembrava ancora più piccola, la voce
non le usciva neanche. Lo prese lì, tenendo
le mani di polvere e sangue nelle sue, secche,
dure e ancora più nodose di sempre.
Non voleva, aveva pensato tutto il giorno
a come non tirargli quel tiro maligno
tra i pali, a come non lasciarsi andare
davanti al suo bambino che aveva ancora
bisogno di tutto, a come non buttargli
addosso una croce che era già troppo
pesante per lei. Ma gli occhi non obbedivano
mica, viaggiavano tra le parole allagati:
«L'ospedale, chissà se ritorna». Lui
rimase lì, tra quelle mani che si scioglievano
per la prima volta, sopra quel dolore
che la faceva ancora più piccola. Non aveva
vergogna, piangeva; non sapeva nemmeno
cosa avesse suo padre, piangeva con lei,
gli sembrava che questo bastasse.
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