Silvia Rosa con Genealogia imperfetta su L'EstroVerso
03.03.2015
![]() Genealogia imperfetta
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autori: | Silvia Rosa |
formato: | Libro |
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Silvia Rosa con Genealogia imperfetta su L'EstroVerso
Chiamata a riflettere su che cosa sia per me la poesia e sul suo valore nella contemporaneità, sono rimasta muta per giorni. Non mi riusciva di scrivere nulla. Ogni volta che provavo a definire un pensiero, mi pareva che sfuggisse o che smettesse di avere un significato nell’attimo stesso in cui prendeva consistenza. Che fosse abbastanza stupido, anche. Ridondante. Sarà che in fondo penso che, assumendosi la responsabilità di scrivere testi poetici, il proprio orientamento – ciò in cui si crede – sia implicito nella forma e nel contenuto di quello che si è scritto, e che non si debba aggiungere altro, perché ogni parola in più sarebbe superflua. Sarà che continuo a sentirmi in imbarazzo svelando dettagli del mio rapporto con la poesia, come quando si rivela un segreto inconfessabile, nascosto per pudore.
Ma tant’è. Dopo la fase di mutismo ho cercato e riletto alcuni appunti di qualche tempo fa, in cui sostenevo che per me la scrittura poetica è gesto di salvezza e dono (di sé) e può avere una funzione rassicurante e contenitiva: in questo senso le parole sono un argine che protegge dal vuoto, e i versi un cammino che dal centro più autentico di sé si schiude al mondo e allo sguardo dell’Altro, con una richiesta che è al contempo un’offerta di ascolto e di accoglienza. Negli stessi appunti (presi leggendo anche “Ragioni di una poesia” di Ungaretti) avevo scritto poi che la poesia è una particolare modalità di scandagliare il reale, rovesciando il senso comune che lo tiene ingabbiato in certe immagini statiche e ordinarie, e reinterpretandolo. Il linguaggio della poesia attinge, infatti, alla sorgiva potenza della parola e racchiude in sé l’evidenza di ciò che si vuol indicare, nel suo darsi a conoscere come condizionato dai limiti, alludendo al mistero insondabile che attraversa l’essere delle cose e dell’umano: nell’intensità della sua intima e sintetica forma espressiva, la poesia forza dunque il confine di significato di ogni vocabolo dilatandolo verso l’indicibile, gettando ponti tra l’uomo e l’infinito, incarnando il tentativo di elevarsi a un luogo del pensiero che interpreta l’esistenza senza ridurne o cancellarne gli aspetti incomprensibili con l’uso della sola conoscenza razionale.
Non posso dire certo di non condividere più queste osservazioni, anzi, solo che forse non rivelano nulla di me e del mio incontro con la poesia. Per raccontare di quest’incontro dovrei ricorrere al c’era una volta delle fiabe: “c’era una bambina, una volta, che trascorreva ore e ore tra le pagine di un libro, il primo volume di un’enciclopedia per l’infanzia (I Quindici) in voga negli anni Settanta. In quelle pagine c’erano filastrocche, nenie, poesie, c’era Rodari, ma anche Leopardi e Ungaretti, c’erano immagini incantevoli e un mondo di parole nuove. C’era una bambina, una volta, e sua madre che le leggeva un libro, e la bambina sapeva a memoria ogni filastrocca, nenia, poesia prima ancora di saper leggere e scrivere da sola. C’era una bambina, una volta, sua madre, un libro, poesie e pomeriggi interi di voci che si rincorrevano, c’era una lingua madre che era casa e che dava senso alla realtà e alimentava l’immaginazione[…]”. Questa fiaba però non ha un lieto fine, e per questo forse ha avuto inizio così presto la mia relazione con la parola poetica, l’unica che sia stata mai in grado di avvicinarsi al dolore della perdita, alla paura, al senso di vuoto e anche all’amore, nominandoli, sapendoli raccontare, dotandoli di un senso. Quella bambina ero io, tre anni circa, e la poesia aveva allora la voce di mia madre, ed è nella pancia che risuona ancora oggi, come qualcosa di irrimediabilmente perduto che continua a esistere in qualche luogo che sono io ed è il mondo fuori, allo stesso tempo. Per me la poesia è viscerale, e non può prescindere da certi accenti intimistici e introspettivi (sottoscrivo a questo proposito la poesia di Nina Cassian: “Io sono io./ Sono personale,/ soggettiva, intima, singolare,/ confessionale./ Tutto quel che mi accade e si ripete/ accade a me./ Il paesaggio che descrivo/ sono io stessa./ Se vi interessano/ gli uccelli, gli alberi, i fiumi,/ consultate i libri degli esperti./ Io non sono un dato uccello,/ un dato albero,/ un dato fiume./ Io sono registrata solo/ come un Sé,// Io, ovvero Io.”), un guardarsi l’ombelico che non è da intendersi banalmente in senso negativo, come mera inclinazione all’autoreferenzialità. L’ombelico è la cicatrice che ci portiamo addosso e sempre ci ricorda la perdita, il distacco da cui la nostra individualità si è originata, la separazione da un corpo altro con cui brevemente abbiamo sperimentato la fusione totalizzante. Io penso alla poesia come a una particolare declinazione dello sguardo rivolto a indagare la propria interiorità – in relazione con l’esterno e con l’Altro – che, nei casi più felici e riusciti (laddove l’io non diventi ipertrofico e sterile), riesce a tradurre e a testimoniare quell’interessante percorso soggettivo di consapevolezza e di autenticità alla ricerca di una dimensione umana condivisa, che si universalizza a partire da un sé fatto a pezzi col bisturi affilato della scrittura e offerto al lettore, in un gioco di specchi nel quale riconoscersi significa salvarsi reciprocamente. La poesia è inattuale e pure attualissima, perché è legata alla dimensione umana più essenziale che da millenni è la medesima (altrimenti non si spiegherebbe perché leggendo i lirici greci ancora ritroviamo qualcosa che dice di noi, donne e uomini immersi nella fluidità dell’epoca post contemporanea), nonostante i cambiamenti che hanno attraversato le diverse società nel tempo e nello spazio, e che si riflettono sul linguaggio adottato, nei contenuti o nei riferimenti al contesto. La poesia accoglie tutte le contraddizioni, le mancanze e gli eccessi, intanto che sfugge all’ennesima de/finizione. Per questo supera l’uomo, il qui e ora, e deborda oltre sé stessa, tanto che a volte quando davvero si ha la fortuna di scrivere un testo che le si avvicina sembra quasi impossibile riconoscerlo come proprio. A me è capitato, di rado, e allora mi sono sentita minuscola, come quella bambina di tre anni che ascoltava la madre raccontarle il mondo con le parole dei grandi poeti, un istante prima che il mondo finisse.
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http://www.lestroverso.it/genealogia-imperfetta/
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