Video e scheda per Luisa Pianzola al Salotto Caracci
![]() Il ragazzo donna
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autori: | Luisa Pianzola |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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Video e scheda Salotto Caracci 30.10.2012 sulla poetessa Luisa Pianzola e il suo volume di poesia “Il ragazzo donna” (LVF 2012)
MICRO-ARCHITETTURE NEL DESERTO
su IL RAGAZZO DONNA, di L.Pianzola, La vita felice 2012
di R. Caracci
Il lettore che apra le pagine del volumetto di poesia di Luisa Pianzola ha subito la sensazione -squisitamente tipografica- di non trovarsi di innanzi a una lirica tradizionale, consueta. E questo per due semplici motivi. Il primo: è una lirica senza versi spazialmente e metricamente impostati, poiché scorre come flusso di canto ininterrotto, segmentato solo da virgole e punti. Il secondo: ciascun brano- non più lungo di mezza paginetta e dunque circondato da molto spazio bianco- è privo di un incipit, anche sintatticamente, e parte dunque in medias res, come la prosecuzione di un discorso di cui manca proprio la parte iniziale, e spesso anche il soggetto.
Quanto al primo aspetto, quello di una poesia prosastica o di una prosa poetica, è inutile chiedersi se si tratti più versi in prosa o di prosa in versi: il flusso verbale qui viaggia tra immagini e logos, tra sensazione e intelligenza, e dunque anche tra abbandono lirico e discorso analogico, più che logico. La poesia c'è, ed è nella scelta calibrata delle parole, negli scarti linguistici, nella vertigine degli sviluppi e delle involuzioni, in questo uso del linguaggio come sonda che perlustra acrobaticamente, sinuosa e plastica, la superficie delle cose e il loro fondo, il dettaglio e l'indicibile, le venature dell'esperienza e i loro contorni.
Quanto invece al secondo aspetto, quello del flusso discontinuo, anzi senza soluzione di continuità, decapitato di incipit e del soggetto stesso del discorso, nulla è affidato al caso. La Pianzola costruisce, con una accesa sensibilità architettonica, delle intelaiature 'mobili', dove ciascun segmento linguistico, apparentemente slegato, si puntella nel contesto degli altri. Ne nascono delle figure insieme compatte e scorrenti nell'acqua di un lucido flusso di coscienza. Ricordano le ninfee o quei fiori giapponesi che si aprono e si gonfiano nell'acqua, e uniscono la permanenza della loro configurazione all'impermanenza dell'elemento mobile su cui trascorrono.
Ecco perchè non è esatto parlare solo di flusso liquido del linguaggio, nella Pianzola, dal momento che le immagini si sovrappongono e aderiscono l'una all'altra come tegole. O meglio ricordano dure lastre di ardesia, lisce e taglianti, pur non del tutto sigillate l'una con l'altra, che si posano e giacciono con la necessità delle rocce stratificate.
Questa operazione di costruzione architettonica dell'immagine o dell'esperienza non sarebbe possibile senza due elementi fondamentali: da un lato la precisa e chirurgica adesività della parola, una scelta talvolta virtuosistica del vocabolo che compete alla messa a fuoco della realtà descritta o al lavoro analogico sull'immagine, sulla metafora o sulla similitudine, sempre molto coerente al referente (spesso alluso o persino sottinteso); dall'altro lato, il lavoro da lima o scalpellino tenace che fa di questo discorso lirico un flusso scavato da profonde ellissi -come l'acqua di questo fluire eracliteo fosse trattata come roccia, e la roccia di queste architetture mobili fosse trattata come magma liquido. Da qui la duplice ambigua sensazione, lasciata dalla poesia della Pianzola, di scabra minerale essenzialità e insieme di sinuosa corrente prorompente.
Fenomenologicamente, potremmo dire che questa poesia acefala, mancante di soggettività come fondamento e talvolta di referente sostantivale, mostra il 'darsi' di qualcosa, più che quel 'qualcosa': l'essere verbo, per così dire, di ciò che è nome e soggetto, la qualità e l'azione, il predicarsi nominale e verbale di ciò che resta sullo sfondo come essenza- proprio perchè forse indefinibile. Tornando all'universo architettonico, di cui la poetessa è esperta (così come di arti figurative), le immagini e le esperienze raccontate in questa poesia si 'dispiegano' nello spazio (e prendono colore) rivelando solo così se stesse, o provando a rivelarsi- perchè qui la realtà tende a custodire qualcosa della misteriosa essenza e referenzialità con una sorta di pudore ontologico. Qui tutto, grazie alla sonda del linguaggio, viene pro-vocato a dischiudersi, a ri-velarsi, ad aprirsi come un fiore all'alba. Sennonché la metafora del fiore andrebbe arricchita con 'fiore di cristallo', perché qui il manifestarsi della 'cosa' è soprattutto il manifestarsi delle sue venature interne, delle sue strutture di fondo, di una intelaiatura fondamentale e senza fondamento.
Ci hanno chiamati, un mattino di ottobre, al primo appello delle otto. Fuori le auto in sosta, un traffico premente. A un nostro accenno a ripetere il nome, la maestra ci ha preso con la mano la mano accompagnandoci nell'aula con finestre grandi. Studenti con i sassi, turni a ripetere senza cantilena, sudore e concitazione hanno fatto il resto. Bastoni, orchestre di cori e granelle di denti bianchi oh quanti, tra i sorrisi.(1960-2012)
Sono schegge di ricordo, di micro-autobiografia, giustapposte, apparentemente alla rinfusa, ma è forse la memoria involontaria che viene a galla nella sua speciale necessaria selezione. Il tono appare monocorde, ma è il frutto di un lungo silenzio, di una lenta 'ruminazione' del passato, dalla quale si salvano solo parole importanti, immagini dotate di una loro frammentaria eternità -qui l'eternità labile dei ricordi d'infanzia. La forma è paratattica, l'accento anti-lirico. Ma il lirismo c'è, è muto, compresso, si fonde con la stessa sintassi asciutta del periodare, con la scelta cadenzata delle parole, e con quello struggente non detto che si nasconde tra le pieghe del detto. Ma più che i dettagli dell'infanzia (non è questo che vale ricordare), torna qui alla memoria la sensazione di un precipizio mal riempito, la buca profondissima dove siamo caduti ridendo (…)
Il tono della Pianzola è meditativo, riflessivo. Un lungo ragionamento si dipana, si sviluppa e si riavvolge lungo un corso fatto a curve, meandri: un gomitolo dove il filo si riannoda continuamente anche quando il suo capo sembrava smarrirsi. Una tessitura acrobatica, con frasi disgiunte che gettano l'una sull'altra ponti fatti di ellissi e di silenzio, come trapezisti lanciati nel vuoto e nel vuoto allacciantisi ad altri trapezisti, per descrivere in quel vuoto forme mobili, tracce di una danza senza musica.
Taluni brani, come la breve sequenza Coltivazione del deserto, hanno un tono assorto e profondo da 'diario lirico', o ancora meglio, citando il filosofo francese Marcel, da 'diario metafisico'.
Non mi spaventi. Schiacciami, tempo. Pianifica per tutti noi la totale assenza di futuro...
La desertificazione del mondo è la premessa della sua 'coltivazione'. Per ricominciare daccapo, rotolarsi su nuovi campi fuori dalle metropoli, prendere congedo da sé, vedere oltre. E', se non altro, un auspicio. Un modo per dotare di senso il futuro.
In questa poesia così stratificata nello spazio -tipografico e mentale-, il tempo rimane uno dei motivi principali, anche quando è sottinteso. E' quel tempo che va goduto oltre la fuga del presente, anche nell'assenza di slancio, di notizie sempre nuove, di incontri sperati. Quando il presente -dunque- si dilata, e tu rimani lì dove sei, nella festa dell'attimo.
Se i gesti riposano, riposano gli anni, la distanza tra parole e rischio si assottiglia ma non chiedi altro per riprendere il controllo. Un secondo ti fa festa e tu fai festa al suo frammentarsi infinito. Per un secondo soltanto -perché niente è ancora troppo poco- interroghi il cronometro taroccato. Se le dai tempo, una sera è una sera infinita.
C'è un tono gnomico, da saggezza antica, in queste parole -che potrebbero essere condivise da Seneca come da certo pensiero orientale o zen-, ma ciò che a noi interessa è il tono lucido, fermo, profondo di un linguaggio che scava, esplora, sonda nel fibre dell'esperienza, sullo sfondo di un lungo meditato silenzio.
La Pianzola è capace però di mobilitare la sonda di questa lucida vigile coscienza anche nei momenti più banali e abitudinari del vivere quotidiano. Come in 'Gioie tra me e il carrello'', dove la temporanea sosta davanti alla cassa di un market, con le mani sul carrello della spesa, favorisce un piccolo ventaglio di gustose riflessioni, tra nota satirica e riflessione antropologica.
Un paradiso in terra, magari la vita rispondesse come qui ai segnali di corsia. Tutti fluiamo qui decorosi e smorti, ma chi ti incontro vedi la tizia com'è invecchiata, flusso di catene invisibili, gioie tra me e il carrello.
L'ironia di una donna scrittrice permea anche la sequenza L'arte, innata nella donna, dell'accudire
Il marito è uscito di buon mattino per andare al lavoro. Ah, la moglie lo aspetterà svolgendo mansioni utili alla casa. Il rammendo, tra le altre, è un ottimo rimedio alla dissipazione quotidiana di neuroni...
...mentre il marito è al lavoro, la signora attenta alla salubrità domestica non rinuncerà al vuoto metafisico del lavare pulire spolverare riordinare.
La sequenza Il ragazzo donna, che dà il titolo al volume, racconta le emozioni sprigionate dalla splendida voce di un cantante, l'inglese Antony Hegarty, a un suo concerto.
oggi è arrivato con la voce a curare. Tutto si perde si dà via ma non il tempo: musica più parole che non capisco uguale sangue
Non parlerò della sua voce, ripete la poetessa (in forma di preterizione) mentre invece ne parla. Ma ne parla a sprazzi, con due immagini di grande evocazione suggestiva: le note a coltello di quella voce che scava nell'anima, e la brace morbida di quel canto inquietante. Qui la tecnica 'fenomenologia' della Pianzola trova un suo fulgido esempio: il soggetto, ossia la voce, resta taciuto, o vorrebbe restare taciuto, mentre la poesia ruota attorno alle manifestazioni del soggetto, agli effetti, e in questo caso specificamente alle suggestioni nel cuore di chi ascolta (non parlerò, io che so cantare.
La tastiera della vena poetica della Pianzola è varia, e può dispiegarsi anche nell'abile descrizione di paesaggi rurali o edilizi attraversati quasi a volo d'uccello, come quelli della lunga via Emilia. Qui l'attenzione, da cultrice dell'immagine e delle forme architettoniche o semplicemente edilizie e urbanistiche, va ai colori, alle linee, o al caos stesso dei paesaggi emiliani, con la loro storia, la loro umanità.
Un'umanità assortita dondola nella pace del pomeriggio e a chi ha preferito andarsene, armato, dice ciao.
a pennellate, forse, sarebbe più facile. Dico l'ocra e il paglierino delle facciate...
per non parlare del cabalto chiaro tra edifici nelle oasi commerciali.
La terra natale è per la poetessa anche archivio di ricordi, di sensazioni, dolori e suggestioni che ritornano.
dice finché te la senti, cammina. Finché dura questo passo fangoso e le scarpe hanno di che faticare resta dritta sospesa, molleggia vagamente ma con giudizio.
che ci fosse molto da ricordare è talmente scontato che non serve.
La storia raccontata tutta d'un fiato, poi c'era la sera fresca, schiantarsi correndo verso casa, la casa provvisoria.
All'insegna del rapporto colore-non colore, ma anche vuoto-pieno, fuori-dentro, è la bella silloge Paesaggi inumani. La poetessa, invasa dalla luce solare di una vacanza che dovrebbe dare serenità (e che invece come una prosa invadente chiama silenzio e non lo trova) sembra oscillare fra il desiderio di versare nuovi colori sulla tavolozza della vita e il rimpianto dei grigiori urbani.
….si versino nel cranio dell'osservatore dosi potentissime di colore saturo (....) Ma prima avrà trovato l'antidoto: grigi e grigi. Grigi di città piombata portoni strappati ala pioggia
Anche le parole dette a un Tu familiare, come in Parole di una certa utilità, sembrano pronunciate a bassa voce, in una intima profondità a due che escludono per il momento il mondo esterno. Parole cariche di un pathos sereno, di una pietas insieme ferma e accorata. Al tempo stesso vicine, empatiche, e dettata da una grande distanza- quella nutrita dall'esperienza vissuta e dal tempo.
Ecco, hai preso le parole da un indovino e gli hai dato corpo, un corpo qualunque, tienile ancora un po', prendine un po' e scaldale. Resistono. Durano moltissimi anni, e ancora.
Tra le pagine più riuscite dell'autrice, che ne confermano la versatilità, vanno annoverate quella della silloge Caro mondo mansueto. Pennellate di un antico mondo contadino, bozzetti e frammenti di spazio-tempo, di storia esteriore e interiore. La storia fa sempre più capolino nella seconda parte del volume. E una poesia può nascere anche dalla foto dell'esecuzione di un anarchico, l'italiano Santo Caserio, che assassinò alla fine dell'800 il presidente francese Carnot (Il cavallo ti guarda).
Il ragazzo donna si chiude con la sequenza Partenze, che racconta- sempre a tratteggi ed ellissi- un'esperienza più o meno immaginaria di viaggio, di allontanamento da casa, ma anche quelle 'zone protette' da cui un viaggiatore può guardare al tempo, al suo passato, alla storia, compreso tutto ciò che avviene intanto in patria, nel caos del presente pieno di nuove notizie. E forse la condizione del poeta è proprio questa, di esule-emigrante fermato a una specie di 'posto di blocco', per vivere suo malgrado il non luogo e il non tempo di una oasi provvisoria, di una frontiera, di unazona franca e soprattutto protetta.