Corrado Bagnoli su sussidiario.net per Luigi Cannillo con «Dal Lazzaretto»
![]() Dal Lazzaretto
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autori: | Luigi Cannillo |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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Luigi Cannillo, nel testo di apertura del suo Dal Lazzaretto, recentemente edito da La vita felice, confessa: “Noi siamo i salvati adesso, i nostri/ occhi a fotografare le impronte:/ lo stemma borromeo, il bar/ degli eritrei – a futura memoria”. La zona del Lazzaretto di Milano, a Porta Venezia, è quella dove il poeta è nato e ha vissuto lungamente con la sua famiglia. È storicamente un quadrilatero di strade che risale al Quattrocento, su cui venne costruito il ricovero per i malati e che ha subìto profonde trasformazioni nel tempo. Tempo che è il vero protagonista del libro di Cannillo. O meglio: la nominazione delle cose che si sono sviluppate nel tempo; il loro respiro, il loro apparire e scomparire dentro un mistero più grande che qui, a Milano, prende il volto delle nebbie.
Il libro è un viaggio nella storia e nelle storie che dentro essa sono cresciute e anche si sono nascoste. In questo viaggio che ruolo assume il poeta? Lo abbiamo visto: è innanzitutto un testimone. Ma poi, ricordando i suoi giorni di alunno di una scuola che poi lo vedrà insegnante, il poeta dice ancora: “È l’ora della rincorsa per tutti/ tranne uno, che vive d’ombra, / un eremita che dal silenzio/ delle scale sente chiamare/ Non c’è più nessuno, maestro, scrivi”.
Testimone ed eremita, per il poeta l’apprendistato della vita e della poesia comincia in quelle aule in cui “Siamo soli con il nostro errore/ Poi lo sguardo si solleva dal libro/ ci spinge a uscire allo scoperto/ tra il bene e il male che nessuno dice”: la scuola non sa, non può o non vuole rispondere al desiderio di capire con cui ci affacciamo al mondo?
Con uno sguardo ancora rivolto ai luoghi storici dove sono stati sepolti “mali antichi e sogni di rivolta”, il poeta afferma: “Di vedetta possiamo distinguere/ all’orizzonte il profilo dei monti/ le tracce di animali in libertà/ Ma restiamo in servizio interrogando/ le rotaie dello scambio/ se la missione sia raggiungere/ gli altri in fuga o sull’attenti/ immaginare il loro ritorno”. Qual è il compito del poeta? Qual è il destino della poesia? Testimoniare il mondo che se n’è andato; rimanere come una sentinella a scrutare se mai ci sarà un suo ritorno, accettando anche la solitudine. Il viaggio continua, lo sguardo di Cannillo sa cogliere lo splendore dell’estate, nomina le cose e custodisce la loro voce. Ma “cresce una resa malinconica/ le braccia abbandonate alla luce/ un presagio di fatica nel respiro”. La sua parola poetica, precisa e controllata, sempre misurata, è come ferita da una consapevolezza amara: “La festa mi regalerà il mondo/ pensavo ma la cartolina/ che vi sto scrivendo mostra/ un interno modesto e poche visite/ la passeggiata nei dintorni”.
In che cosa consiste il tradimento di questa realtà così docilmente accolta e della quale la sentinella stava aspettando una diversa epifania? Il poeta torna al Lazzaretto, alla sua Milano in cui “Nemmeno una torre, una collina/ a indicare il verticale, perfino/ le rondini sfilano parallele/ senza tagliare il soffitto del cielo/ Dalla pianura si impara a fissare/ l’orizzonte senza soggezione/ ogni campo diligente nei suoi confini/ ogni cascina bassa, noi interni/ nel puro mistero delle nebbie… Dov’è il resto, chiedi alla prateria”. Le parole della poesia – che avrebbero dovuto incontrare la grazia del verticale, di una dimensione altra e forse salvifica del mondo, che potevano raccontare il miracolo di un desiderio insopprimibile finalmente soddisfatto – si sfarinano e si trasformano in una lenta e faticosa conquista della gioia “soltanto/ con duro esercizio, una roccia/ dopo l’altra, per ostinazione”, mentre “Del dolore invece/ si riconosce subito/ la chiara origine e naturale/ la sua statura, l’avanzare del taglio”.
Qual è, dunque, il compito del poeta di fronte all’apparente sconfitta del tempo? Risponde così Cannillo: “Ho ascoltato e trascritto/ ogni volta imperfetto affamato/ Mentre altri facilmente sazi/ scelgono dalla lista/ la poesia come cibo pronto”. Il poeta Cannillo prosegue il severo artigianato dell’opera, non c’è in lui la tentazione di disertare, ma caparbiamente ripete ancora e sempre: vivrò/ tutte le sette vite qui” perché “Nel formulare un interrogativo/ apriamo una via alle risposte”. Non abdica un poeta, rimane acceso nella sua domanda; la sua voce non si arrende: il silenzio è la parola della disperazione. Anche gli altri due libri letti in questi giorni, ingaggiando la loro battaglia sul tempo e sul suo senso, si muovono alla ricerca del compito e della vocazione della stessa poesia.