Giosuè Carducci e Annie Vivanti: la dimensione dell’incontro
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autori: | Annie Vivanti |
formato: | Libro |
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articolo di Andrea Galgano
Contessa, cos’è mai la vita?
E’ l’ombra di un sogno fuggente,
La favola breve è finita,
Il vero immortale è l’amor.
Giosuè Carducci, Jaufré Rudel, 1988
Il 5 dicembre 1889 arrivò in via del Piombo 4 a Bologna, nella casa del più acclamato poeta d’Italia e professore universitario Giosuè Carducci, la lettera di una donna di ventitre anni (o meglio così scriveva di avere) dalla vita ‘orfana’ sotto ogni profilo, Annie Vivanti che, con spirito umoristico (basti pensare all’incipit “Audaces fortuna iuvat”), chiede udienza per conoscere il Vate e sottoporgli una raccolta di versi. Richiesta rischiosa data la naturale ritrosia di Carducci ad essere divoratore di poetesse: «Signorina, Nel mio codice poetico c’è questo articolo: – Ai preti e alle donne è vietato far versi. – Per i preti no, ma per Lei l’ho abrogato» e poco più avanti ne loda «la immediatezza della rappresentazione» e «la verginità dell’espressione».
La risposta fu immediata e così anche l’incontro a cui seguì la stampa, per il temibile editore Treves della silloge della Vivanti, dal titolo semplice Lirica voluta da Carducci, con prefazione stessa del poeta che poi ottenne numerose ristampe e critiche quasi sempre favorevoli.
Nel 1890 i due si rincontrano e divampò una passione amorosa, e mentre lui fu in procinto di partire per La Spezia scrisse questi versi, mentre appuntava date, nomi ed eventi: «Batto la chiusa imposta con un ramicello di fiori / glauchi ed azzurri, come i tuoi occhi, o Annie».
Scrive Anna Folli: “Annie Vivanti è una singolare fisionomia di fanciulla: cosmopolita e girovaga, di ingegno potente e di scarsa educazione letteraria; i suoi sentimenti sinceri sono l’amarezza e lo sconforto, combattuti con audacia, esibiti con ironia; l’amore della vita è la sua forza”. Dopo un avvio pieno di passione, e i pettegolezzi, poco presi in considerazione da Carducci, la storia inizia ad avere un volto, nelle vacanze alpine, tanto care al poeta.
Inizia un fittissimo e fortunatamente recuperato carteggio tra l’Orco, l’affettuoso nome dato al suo “Signore” come veniva definito e Annie.
Un andirivieni di sentimenti, di crisi, di strani rapporti e poi di ardori spenti e amicizia che si assesta. Lei scrive: «Quando voglio parlare, c’è Carducci che mi sta a sentire; quando voglio essere adorata, c’è Carducci che mi adora».
A Londra nell’aprile del ‘92 Annie, dopo rapporti anche di natura saffica, sposò John Chartre, importante avvocato irlandese, dal quale avrà Vivien; Carducci entrerà, in questa famiglia allargata, come una sorta di figura aurorale, che amerà i virtuosismi e «l’italiano anglicizzato» della figlia di Annie, che presto diventerà una grande violinista apprezzata, e giocherà a briscola e scopone, sua altra passione, con il marito.
I due non si vedranno più da soli, il loro ultimo incontro sarà nel 1902 tra Spluga e Madesimo, sua meta abituale. Lì in quel 1890 lei aveva piantato con «le sue leggiadre mani un pino rivolto a mezzodì».
La fortuna di Annie Vivanti si affermò anche oltreoceano come autrice di teatro di successo, dopo il clamoroso fiasco a Bologna e avendo, invano, tentato di proporre i suoi scritti alla Duse e alla Gramatica.
Una personalità esuberante quella di Annie Vivanti, scandalosa nel senso più vero del termine, piena di eccessi e di ombre, famoso a tal senso, il duello che coinvolse anche suo fratello Italo per la scoperta di un intrigo amoroso di lei.
L’intimità tra i due, che espose il ritroso poeta anche alla visibilità, si nutre di luoghi e paesaggi: dalla crociera nel golfo del naufragio di Shelley, fino alla visita a Giuseppe Verdi o alle passeggiate sulle Alpi Retiche.
Non c’è fedeltà al Poeta. C’è un raro tumulto di passioni e abbassamenti di tono. L’ossequioso “Voi” di lei, al “Tu” quasi filiale di lui. Una devozione che finisce nell’amicizia e nella difesa per il Nobel, che sarà poi consegnato a Carducci nel 1906.
In quell’ Elegia del Monte Spluga del 1898 l’amore, fatto di citazioni mitologiche, di temperie classica, nutre la celebrazione di un luogo e di una presenza e soprattutto di un ricordo che colma e ferisce il vuoto.
È diventata la sorella delle Fate incoronate di quercia, che inquisiscono quell’ “Orco umano” al quale chiedono se l’ha divorata. Ella vive ancora e palpita nelle vene, sedendo nella mente, assalita dalla solitudine e dalla paura: «Sali, dice il poeta, tu fiera sovrana, e co’l lampo/ de’tuoi belli occhi spirami gloria e amore».
Annie Vivanti scrisse nel maggio 1906 il suo Giosuè Carducci: «Non dimenticheremo mai l’addio che ci deste nel crepuscolo lassù a Madesimo. Noi traversammo il ponte e Voi tornaste indietro, solo. La Vostra figura è scolpita solitaria e grande nel mio cuore e in quello di mia figlia. E penso che è una grande felicità l’averVi conosciuto ed amato. Penso anche che di là di un altro ponte – dopo un altro crepuscolo – noi ci ritroveremo ancora. È certo. Addio, diletto Signore. Stringo le vostre care mani». (Londra, 14 novembre 1902).
Le vicende di Annie dopo la morte del Poeta nel 1907, saranno dolorose e tragiche, fino al suicidio della figlia. Sulla sua tomba però, come un lampo acceso, ci sono quei versi che hanno ritratto in maniera immortale e memorabile un incontro di anime, cresciute sotto la solennità fragile della poesia: «Batto la chiusa imposta …».