Marica Larocchi per «Tutte le forme di vita»
20.10.2020
![]() Tutte le forme di vita
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autori: | Claudia Azzola |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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Questa raccolta, la più recente di Claudia Azzola, si apre con un poemetto dedicato alle api e agli insetti, rispettoso perciò della citazione che appare in esergo, tratta dalle Operette Morali di Giacomo Leopardi e concernente le creature che volano negli ‘strati alti dell’aria’, creature definite ‘vocali e musiche’. La raccolta si sviluppa articolandosi per 28 composizioni di varia lunghezza e misura metrica libera, il cui tema -spesso sottolineato dal rispettivo titolo- innesca una riflessione sulla parola, prima ‘racconto’ in quanto programma di scrittura ( è ciò che si evince dal testo Troppo lungo il racconto) , quindi vera e propria argomentazione che si dilata, come lo sguardo quando accarezza l’orizzonte, sugli aspetti più salienti, fausti e infausti, della realtà, anzi del Reale. Qui, infatti, è il vissuto personale, la prospettiva soggettiva del locutore, che, passando attraverso la stamigna delle parole, si trasforma in trama verbale.
I testi sono senza sosta percorsi da echi, rimandi, intonazioni e richiami mnestici che implicano ogni settore, tutte le sezioni proposte dal titolo complessivo; e il titolo stesso corrisponde alla versione laica dell’evangelico ‘Egò eimì zòon’ ( io sono il mondo vivente), poiché l’A. vuole, meglio vorrebbe una voltura di segno di tutte le parvenze vitali, una metamorfosi totale dell’esistente dentro la materia verbale.
Le esperienze, le memorie, gli scorci, le immagini, i paesaggi qui ordinati sono in effetti modalità di rappresentazione dell’esistenza, di ciò che Spinoza chiama la Sostanza; talvolta modalità già compiute e concluse, come in Necropoli, vive reliquie dei regni animale e vegetale, ma soprattutto sigilli di attività umana, artistica, letteraria, sociale, urbana, geografica.
La raccolta si chiude, ma più giustamente bisognerebbe dire ‘si apre’, con una Postfazione nella quale l’A. indica e fissa i caratteri preminenti della sua ricerca poetica. Nel 2007 ho già avuto il piacere di presentare un’altra raccolta poetica di Azzola, Il Poema incessante, quindi non esito a sostenere che per lei la scrittura, non solo quella poetica, è il mezzo privilegiato per fare emergere gli strati più profondi e arcaici della conoscenza, di quel serbatoio privato a cui attinge la facoltà creativa; e che così bene hanno analizzato Roman Jakobson e Ignacio Matte Blanco, linguista il primo, psicoanalista il secondo.
Presentando la raccolta precedente , comunicazione che ho intitolato la parola dell’esilio , - e che sarà compresa nel mio libro Tavolo di lettura n.2 di prossima pubblicazione-, ho posto in evidenza un termine preciso con riferimento a una composizione intitolata Vulnus, ferita assai particolare, esclusiva pertinenza anche etimologica dell’universo femminile. Ed ecco che la ritrovo qui, immancabile, nella terza strofa del primo poemetto (‘il vulnus /era già nel tronco, pietra di reni,/la pietra bianca, / debole di sangue la nuda anca.’) Questa ferita è la tasca del grembo da cui tutti noi proveniamo, ma è anche il segno che ci rende umani e quindi capaci di parola. La nostra anca è non solo debole e nuda ma forse anche torta e zoppa come quella di Giacobbe dopo che si è confrontato con il misterioso lottatore, qua latore di linguaggio poetico. Me ne fornisce prova il passaggio rapido dal gallo alla rosa, dal miele al fiore e al male e al cosmo, su cui tornerò tra poco.
‘Il gallo ha beccato nella rosa
Il miele giallo, ha disgiunto il cosmo.
L’ape congiunge all’universo il fiore.
Ombra calcata nel fiore, ape,
bacio del fiore, tormento e dolzore;
da vicino, all’olivo non si sconta
il male che lo corrode, il vulnus,
era già nel tronco, pietra di reni,
la pietra bianca,
debole di sangue la nuda anca.’
Ora, hic et nunc, vorrei porre in rilievo tre particolarità che pervadono l’intera raccolta :
1) il richiamo alla sfera mitologica – sempre presente nella scrittura di A. anche nelle prose di Parlare a Gwinda , ovviamente con esiti diversi- il tema mitico sempre intrecciato nel tessuto biografico, un mitico d’origine vichiana, dove tutto si origina dal corpo, dalla corporalità, dall’eroe/gigante fino all’umano;
2) la formulazione sempre immersa, sommersa, nel clima onirico dove pensiero (logos) e sonorità pulsionali si fondono nella materia verbale;
3) la predilezione dell’A. per l’aspetto materico del linguaggio, e ciò non perché Claudia sia una donna che scrive, ma in quanto la sua scelta stilistica, di ‘linguaggio’, la sua speciale tessitura di toni, timbri, accenti e cromatismi forma quell’ordito stretto e affascinante di senso e di suono che io definisco il Femminile nel poetico (in proposito uscirà una mia nota nel prossimo numero della rivista Cenobio ); il verbale , il matricale, per l’appunto.
Sono queste le caratteristiche che rendono Claudia Azzola un’ autrice modernissima.
In riferimento alla prima delle peculiarità da me elencate, cito le composizioni Centauro, Core, Orazio, La fine di un’epoca, Civetta. Qui gli accenni al mito/corpo e carne sono frequentemente associati a richiami culturali, a tasselli e a tessere di reminiscenze di letture classiche, remote, disseminate sul nastro della dimensione spaziotemporale ibridando la cifra biografica nella sfera mitica del senza tempo.
Quanto alla seconda peculiarità, citerei Verde liquido, un testo tutto ‘giocato’ sui valori fonici di paronomasie, di consonanze, di assonanze e di allitterazioni nell’intento di agganciare in un suono unico, in una sorta di unisono, i tre regni del creato- insetti, albero, falco-, riassunto e sublimato in quell’omaggio che direi perfetto, all’immagine del ‘padre vagante’.
Anche in Civetta, dove la rammemorazione di una visita a un bastione dei Sassoni lega insieme il passato remoto, neppure più glorioso, di un Ettore e di un Achille, forse solo figure di famiglia, fino alla soglia di una salvezza affidata al ‘viso ‘ di una ‘ mamma occhiuta sempre allertata’, ‘viso che si forma sulle parole/fatti gravi inespressi sulla bocca’, come se la fusione di scorci remoti eppure presenti, d’aulico e di basso registro al contempo, fosse la sola delegata a dare voce a tutto ciò che si estingue, senza mai perdersi.
E in relazione al terzo aspetto della scrittura di Azzola, ribadisco che la sua parola è sempre ambivalente, svelta e reticente insieme, ambigua, pronta a trasformarsi in un autentico ‘semenzaio di segni’, oltre che in un archivio di sogni come in Libro miniato (pag. 48),testo che ritengo il vertice dell’intera raccolta.
Aggiungo che l’alternanza di monologo e di dialogo fra i soggetti locutori io-tu-noi, sancisce la comunanza linguistica del potere creativo tout court , come si legge in (Il gallo pag. 10), già citata.
E concluderei questa mia assolutamente deficitaria comunicazione con il testo di pag. 26 dove la formulazione è aspra, pungente, quasi possente.
‘Non gettare parole furenti
nel caos, è già potente la crisi;
elaborare nascite: transito
illusorio, domani farà fresco,
negli anfratti delle rocce, degli astri,
le donne immettono nel mondo
un mondo, estraneo un pondo,
in navigazione nell’onda
grossa, mare animale,
attualità del corpo,
pelle infernale,
mondo polimorfo,
realtà frattale,
sismografo
di nascite esiliate sulla rotta,
già inserite in morte catastale.’
La lingua di Azzola è ellittica, sinuosa, oracolare, magmatica, allusiva, oscilla sempre fra la necessità di tacere e l’urgenza di svelare. (pag.16 2° strofa ‘Taglio i gambi della rosa muscosa/ come taglio i capelli’…) E’ insomma una nebulosa di faville e di favelle, un intrico pulsionale e sonoro tra i più seducenti e ricchi di sorprese. Io la riassumo in due termini : enigma e illuminazione.
Marica larocchi settembre 2020