Silvio Aman per «Tutte le forme di vita»
![]() Tutte le forme di vita
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autori: | Claudia Azzola |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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STIAMO COL GATTO
Nella postfazione alla raccolta poetica Tutte le forme di vita[1], Claudia Azzola scrive:
Le parole soffrono l’azione riduttiva del parlare, oggi, nella lingua italiana immiserita. Parlare e scrivere fanno emergere lo strato profondo della conoscenza, la vox di un’innocenza originaria, pur nell’accettazione di una consuntiva learned helplessness.
Individualizzata è la scrittura, non l’autore. Ed è un dono poter fare ascoltare la voce della poesia.
Il continuo intreccio fra parlare e scrivere ci storna dal rischio di immiserire la lingua. Inoltre, la poesia dell’Autrice mantiene il livello cui è giunta grazie alla tradizione[2], come si nota dalla scelta dei lemmi, dei molteplici richiami ai poeti greci e latini, alla storia, alle tombe di Tarquinia e ai miniatori medioevali. Tali richiami, apparentemente irrelati, rivelano invece, che fra essi e la futura totalità è in corso un rapporto di cui la frase «speranza in fior del verde» indicherebbe l’auspicata sintesi verso la bellezza e il diritto alla felicità.
Proprio per questo, qui non abbiamo la forma chiusa e il dominio dello stile come garanzie contro il disagio, come neppure la presenza dell’endecasillabo, dichiarata nella postfazione, il quale segue in modo costante la metrica, oltretutto con molti accenti di quinta.
A una prima lettura, i testi, col loro incedere paratattico e gli scarsi segni d’interpunzione, non permettono di legare fra loro i pensieri, se non tramite un lavoro “archeologico” di strato in strato. Il motivo è dovuto al fatto che a dominarli è il flusso, anche nel senso delle libere associazioni cui si riferisce la psicanalisi, sebbene vi affiorino di volta in volta riferimenti-guida, non in termini di sovrasenso, bensì riferiti alla nostra millenaria cultura di cui i millennials di p. 58 (da notare l’ironico passaggio da millenaria a millennials) cioè i clienti passivi dell’industria, poco sanno o ignorano. Potremmo, a tal riguardo, pensare a una strada senza predeterminazioni, sulla quale, tuttavia, appaiono dei “cartelli segnaletici”. A tal riguardo, l’Autrice mi scrisse:
Sì, questo testo è più “destrutturato” rispetto ai miei libri precedenti. I salti di discorso presuppongono però una materia intellettuale pensante che continua a bollire sotto i versi, che on cessa mai. Quello che è in ombra in questa recente produzione è la soggettività. Certo che il pensiero è mio, la poetica è mia, ma il fatto di navigare spinozianamente nell’essenza-esistenza con un senso di instabilità di questi anni, tende ad affogare i concetti a favore dello stream…e quel che segue.
Assieme alla soggettività vi è qui anche la dichiarata rinuncia della bellezza attesa, concetto d’altra parte di difficile definizione, tanto è vero che qualche estetologo ha proposto di non prenderla neppure in considerazione[3]. In Un discorso che stiamo facendo (p. 18) abbiamo: «non costruirò bellezza in questa ora» anche perché le questioni qui sollevate non paiono privilegiarla. Un chiarimento di questa direzione, dove al bardo si sostituisce un pensoso incedere, mi sembra individuabile nella seconda poesia della raccolta (p. 9):
La matematica del metronomo
batte ore dei vivi, non stantii,
alle porte di verità e del bello:
attendono il bardo che canti.
L’ape si attarda, al bisogno sarà
regina, non ape operaia.
Attendono il bardo, il suo clamore.
Nel frattempo umore è mutato
del gatto che svolta la stradina
sinuosamente,
come l’ermellino bianco,
che piuttosto muore che insozzare
il candido manto.[4]
L’atteso «clamore» è, infatti, contraddetto dall’«umore mutato» cioè dalle imprevedibili svolte del gatto, esploratore sinuoso, quindi estraneo a direzioni prestabilite. Simile tecnica va comunque separata dal “saperci fare col linguaggio”[5] da parte di chi, privo di anelito e osteggiando l’espressione come residuo romantico, costruisce gioielli poetici astratti.
La poesia di apertura inizia con una dichiarazione molto ferma:
Questa è la legge di verità,
tra lo stantio e il rinnovarsi:
hai una forma, falla sbocciare,
come la rosa mundi, rosa gallica,
versicolοr, e speranza fior del verde,
le cose si formano da sole,
come l’insetto giallo sotto il sole,
esaltiamo i momenti della gloria,
e il bombo e la bombarda terra.
L’auspicio, primaverile, fra stasi tomale e rinnovamento, consiste appunto nel far sbocciare la forma come rosa mundi, fiore presente sulla tomba di Rosamund amante di Enrico Plantageneto. Il richiamo alla rosa è però molto più della forma sbocciata, perché porta con sé le tinte e il profumo in grado di attirare le api bottinatrici (i significanti?) per formare il miele nella casa-alveare… e la rosa gallica, come ogni fiore, non potrebbe certo esistere senza il volo dell’imenottero fecondatore, «insetto giallo sotto il sole»[6]. L’esaltazione della «gloria» è legata al fiore «versicolor» segno di variazione, e al «fior del verde» come speranza, al bombo (insetto: bumbus terrestris) ma anche alla bombarda, dal duplice valore semantico, perché strumento a fiato e da guerra. Non quindi l’atteso clamore del bardo, bensì il ronzio naturale degli insetti, il suono della bombarda e, con un rapido passaggio, il rombo dell’arma, come se non possano esserci solo natura, produzione e cultura senza il riflesso della guerra.
Nella postfazione, Azzola offre qualche ausilio al suo modo di scrivere:
Ho eliminato diversi titoli che ingabbiavano i testi in una presunta singolarità, che ne limitava il flusso immaginale, filosofico, culturale… Il senso scorre incessante, pur nei salti di percezione, precipitati, ellissi, allitterazioni che trattengono il respiro, slittamenti semantici, l’obliquità. La lettura multilivellare del dettato è franta, come atomizzata è la realtà che viviamo, spesso slegata dalle modalità di vita conosciute.
Un esempio di legame per effetto della preudo-paronomasia sta fra «bombo» «bombarda» e «bombicina» cioè dal ronzio del bombo alle note dello strumento musicale (così chiamato per la propria potenza sonora) fino al pezzo dell’artiglieria, entro un piano acustico comune: ronzio, rombo e fruscio della stoffa «bombicina» riferito al bombix che produce il filo con il quale si forma il delicato tessuto di seta. Seguendo questi i passaggi legati ai fonemi, Claudia Azzola può anche passare al bisticcio, mettendo in gioco l’«est» di «Ho steso le mani a est» (p. 20) con «cel-est-e» cielo celeste a est (un significante contenuto in un altro) oppure «est» con «est-ivo tempo» fino a produrre delle filastrocche come momenti ludici con lula/allo/ella/ulle:
È verde il lago verde libellula
la libellula del ballo è più bella
e ballar lodando tra le betulle.
Oppure (p. 27)
… Rimane la spoglia?
Piuma pensosa, chi la sposa?
chi si prenderà in seno questa rosa?
O anche, a p. 43, in Amleto:
venti faventes,
terra quae favet frumentis
Ubu Roi (p. 50) contiene altri riferimenti attorno alla tecnica compositiva dell’Azzola e dei suoi propositi, ma anche l’aggettivo «combinatoria» cui verrebbe da collegargli “ars”, cioè l’ars combinatoria o magna di Raimondo Lullo.
In un fotogramma lo scuro teatro
delle crudeltà e Artaud, Jarry,
un osceno Ubu Roi, vivere è atto,
nel tremulo discorso tremano
sotto pergamena forze del testo,
la sirena minerale, neanche
il nesso, ma tutto in memoria,
come nel paniere l’erba matta,
combinatoria, sotto coscienza,
come la blatta nella rossa bacca.
Mi sono buttato alla ventura,
stringetevi a me come pianeti
come selvaggi al trono di paglia.
“Combinatoria” solo nel senso di ciò che liberamente emerge dall’officina interiore, perché sotto il foglio-«coscienza» elevato alla dignità della «pergamena» visto il ricorso alla «civilisation dell’Europa nei secoli, nei millenni» (p. 61) «tremano forze del testo» sicché la sirena può a tratti emergere dagli abissi della stratificazione mineralizzata, quindi non più evento della soglia («I goti sepolti/ sotto le viti di Asti, i gesti finiti») bensì della storia: «Conservo i vostri volti per non/ estirpare il gusto della storia» (p. 10) ordinata con arte nei libri storici dopo opera di setaccio, che nel presente torna caotica (p.24):
Mi affondano caos e fiumane
e gente vociante credevo la storia
portare sul groppone sapere
la storia ma ora svoltano eventi
nuovi o di già vissuto riconoscilo
odore di violenza bestiale.
«O di già vissuto»… certo! nella storia, la quale si ripete variando. Siccome civilisation rappresenta l’avvenuto degrado in versione americana cui potremmo riferire caos e omologazione, il termine «cultura» in Le nazioni concerne il passato di queste civiltà[7].
Il verso «mi sono buttato alla ventura» cui segue la perorazione, indicherebbe il rifiuto – assieme al trono dimidiato – dell’armonica continuità verbale in un mondo da cui è svanita (evidente nelle continue faglie del discorso «franto» per usare il verbo dell’autrice) optando, con una sorta sonnambulismo mnemonico, ai richiami molteplici e puntiformi. D’altra parte, i riferimenti a Jarry e specialmente ad Antonin Artaud, al fine di escludere rapporti servili con un testo la cui pretesa è di valere per tutti, mi paiono in sintonia con la dizione sommossa di queste poesie.
A cosa ineriscono i richiami, pur tenendo presente il loro aspetto di insule in cui il pensiero sosta (e ritorna variato) lungo un itinerario avventuroso, a volte giocoso, ma sempre meditativo? Volendo comporre per sommi capi un elenco dei ponti principali su cui transita il discorso di Tutte le forme di vita, avremmo il mondo animale in rapporto all’elemento aereo e alla terra (con volatili e serpenti, senza perdere di vista la citata rarefazione delle api) lo storico[8] («… credevo la storia/ portare sul groppone sapere la storia») con Alarico, re dei goti, e Amalasunta, gli ipogei di Tarquinia, l’arte del libro miniato, la poesia (Archiloco, Orazio) e il personale.
… la maschera
etrusca nel crogiolo di tutti
uguali e tutto il tempo le nazioni
mischiate nel crogiuolo
ridefinirsi in un nome perché?
Il nostro patrimonio è legge, cultura,
fuori, i nati non ispirati,
millennials,
caduti nelle spire
sono aspirati.
Significativo, oltre al passaggio da «ispirati» a «spire» e «aspirati» cioè nullificati) il ricorso agli aspetti sociali con le poesie di denuncia, non poche: la «genia del fast-food e slow-food» dove simile cibo si oppone all’«ostia» trasparente[9] probabilmente derivata dai Misteri orfici con il divoramento del dio sotto forma animale, al fine d’identificarvisi per interposto oggetto. Qui l’identificazione negativa avviene nei riguardi del «mestiere» anziché dello «spirito dell’opera» ovvero con la prassi omologata volta a predisporre cibi in serie, forse anche metafora di tanti libri orientati dal target, e comunque opposto a Qualcosa di buono (p. 28)…
Risveglio, un mangiare buono, il
caffè, qualcosa di buono. Età
del caos è manducare grezzo ingozzo.
Qua, la poetessa condanna la situazione attuale, mettendo a confronto l’ostia, che i denti non possono toccare, con l’irreligioso «ingozzo». Trovo molto interessante il riferimento al Libro miniato che rivela il suo amore per il Medioevo (p. 48)…
Ho contratto un tono emotivo
in anni d’apprendista ho filtrato
in nomadi notti non di solo sogno.
Libro d’ore alluminato celesti
della distanza, in filigrana, azzurri
Inverno d’Orione gelato,
itineraria picta, alluminata
da artisti in metrica e semantica.
Parole della semina, del cantare
naturale, alzando la coppa nomade
voce che splende nella bocca.
Aggiungerei, se ho ben capito, la nostalgia del libro figurato come opera completa, in cui le ore del giorno vedono affiancarsi parola e immagine, l’aspetto simbolico del linguaggio e il suo prezioso corredo. Ricordiamo che in certi codici l’apparato figurativo, anziché limitarsi a costituire la cornice dello scritto, avanza con fogliami e figure nel suo ambito. «Orione gelato» perché esso costituisce il vertice del triangolo invernale, riferito alle stagioni delle miniature.
La serie dei loci continua con riferimenti a Pan e a Core (p. 49):
Il nostro cammino pesa immane
è esposto al tempo, sull’ellisse
terrestre, dove ogni antro è Ade,
è soglia,
dove ogni bianco d’onda è conchiglia,
sei Afrodite che corre davanti,
sei la Core che Demetra cerca,
perciò grave è il tuo passo, figlia,
l’ombra non prevarrà, e chiedi realtà,
linfa amorosa, non un cuore di sasso.
La poesia, fra quelle che più mi hanno attratto, comporta figure in apparente opposizione, ad esempio Ade e soglia. Il primo, cui la poetessa lega l’antro, e per estensione i luoghi chiusi al rinnovamento, perciò letali, è anche soglia fra due mondi: nella mitologia Kore-Proserpina lo valica per riattivare il ciclo della vegetazione dopo i mesi della pausa invernale, promuovendo nelle piante la risalita della linfa, e «linfa amorosa» potrebbe richiamarsi alla fioritura già incontrata in queste poesie, principio di vita in contrasto con i cuori di pietra, buon auspicio rispetto all’iniziale peso del «cammino».
La conca formata dal moto ondoso con le sue creste si assimila al veicolo pelagico di Venere, la conchiglia appartenente alle venerideae come si nota nel celebre dipinto di Botticelli. In rapporto al tempo abbiamo inoltre l’oscurità spelea e la luce con il «bianco d’onda» e la conchiglia portatrice di vita, cioè la nascita della dea dalla spuma del mare. Sarebbe comunque contrario alla poesia di Claudia Azzola limitare questi cenni al sapere, senza coglierne la portata affettiva e poetica… «Ho contratto un tono emotico».
Per riprendere il discorso attorno a certi loci, abbiamo le memorie familiari: in Giotto, e l’Angelico (p. 51) e in Liberty (p. 52) con la vicenda della casa abbandonata, il Grund protettivo, e quelli psicologici, ad esempio per ciò che concerne il riso (Il riso, p. 31) colto nel suo aspetto multiplo, con riferimento a Hobbes, ma anche di sbieco a Freud, riguardo al Witz e al risparmio energetico. Nella poesia a p. 20 abbiamo: «forse è senso del teatro, qualcosa/ del teatrale ci ripara» che parrebbe alludere da lontano a Lacan: noi siamo protetti dall’immaginario, altrimenti vedremmo, brutalmente, solo le cose come sono.
Per ciò che concerne il riso, c’è una poesia, non per nulla riportata in quarta di copertina, in cui individuare una sorta di “gaia scienza” anche per il ritmico e giocoso succedersi dei versi-parola…
Non c’è un “io” più fragile di quello
che non dice mai un witz, fragile
alga rossa in un vaso di vetro,
non sappiamo quanto la struttura
del corpo reggerà l’onda d’urto
sulla spina dorsale e negli organi
interni
ostacolo
miracolo
aufonia
nevrosi
naturale abitacolo
voce dallo s-profondo,
non v’ha arte senza il riso,
il vero che per poco si afferra,
vena rossa di terra, anima:
atomo che ci precede e sfugge.
Il salto di percezioni e i continui stacchi, nel polifonico flusso di coscienza, non impediscono di trovare istanti (penso al Bachelard che corregge Bergson in L’intuition de l’instant) e richiami all’interno delle singole composizioni come, in Necropoli di Tarquinia (p. 34) fra «lastrico di sale» «e primo sale». L’accenno alle pitture etrusche mi spinge ad azzardare che «le piante/ dei piedi del vecchio antropos» siano cancellate (qua abbiamo però «estirpate») dal salnitro, come avviene in molti affreschi, assieme alla scomparsa del sale come metafora di saggezza «dell’uomo antico» (sale-sapienza cancellato da sale-umidità) e di «Tarquinio prisco,/ ai primordi del latino» rispetto alla gente in visita alla necropoli, la quale non «sa niente». Questa poesia si regge pure su continui richiami in forma di rima, ad esempio in Aironi, mimi di palude (p. 37) fra «pimento» e «cimento» e in Amleto fra «artiglio del caos» «figlio» e «tiglio» forse perché l’artiglio richiama la natura di molti essere muniti di denti, anche, in Fotogrammi (p. 42) connettendo «lavoro» a «decoro». In A bagno Maria (p. 53) abbiamo la relazione «bagnate» e «acqua madre» con «bagno Maria» riferito a un genere di cottura il cui ascendente è Miriam l’alchimista. Notazione da non perdere, perché la poesia dell’Azzola si pone anche come pratica alchemica verso l’utopico uovo-rinascita.
La «schizofrenia della natura» se questa esiste ancora (termine presente nella seconda poesia di Serpente a sonagli in tre tempi) ci fa venire in mente il “gran teatro della natura” (qui «disarmonica» p. 54) comprendente, per Linneo, la guerra di tutti contro tutti, ma anche l’atomismo dell’Io:
La lettura multilivellare del dettato è franta, come atomizzata è la realtà che viviamo, spesso slegata dalle modalità di vita conosciute.
La già sperimentata frammentazione dell’io è cosa oggi completata, grazie all’omologazione e alla puerilità insufflata a fini consumistici.
Claudia Azzola non si esime dal rispecchiare la condizione per cui i soggetti si adeguano, in un clima di generale anomia (libertà ostile a ogni legge) e spesso senza cogliersi come clienti delle strutture che insufflano il consumismo (aspirando con le spire) mentre il Mana incombe sotto varie forme: rischio di guerra e catastrofe ambientale. Resta da chiedersi, se una realtà meno atomizzata, magari all’interno delle società primitive e contadine (tutt’altro che mielate, per come le descrive Nuto Revelli[10]) che oggi studiamo e “nostalgiamo” a patto di restarcene fuori, possano apparirci soddisfacenti. Comunque sia, l’autrice s’impone, come detto, di non costruire bellezza «nel secolo dei diavoli» e nemmeno facili ricorsi al primigenio.
«Lettura… atomizzata»… ma se volessimo cogliere – nel senso ideale del “sono quel che dico” – un accordo fra viso e parola, avremmo i seguenti versi (p. 56):
… nei giorni
non ci arridono più le parole,
viso che si forma sulle parole.
Silvio Aman
[1] Milano, La Vita Felice, 2020. Volume diviso nelle seguenti sezioni: Poemetto delle api e ciclo degli insetti, Troppo lungo è il racconto, Un discorso che stiamo facendo e Fotogrammi.
[2] Secondo Theodor Adorno, l’arte non può fare a meno della cultura, e se per amore dell’inferiore intende essere essa stessa inferiore, si degrada compromettendo la sua carica utopica.
[3] Cfr. Gianluca Garelli, La questione della bellezza. Dialettica e storia di un’idea filosofica, Torino, Einaudi, 2016.
[4] Secondo Ammiano, e in riferimento all’alchimia.
[5] Per Freud, riguardo agli atti mancati e alla sovra terminazione dell’inconscio, il parlante non sa cosa dice.
[6] A p. 11 «insetto cenobita».
[7] Cfr. Osvald Spengler, Il tramonto dell’Occidente (a cura di Furio Jesi) Milano, Longanesi, 1981.
[8] Gli interessi artisti di Claudia Azzola, non confliggono con quelli storici, se pensiamo a Benedetto Croce con La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte (a cura di Giuseppe Galasso) Milano, Adelphi, 2017.
[9] Pane azzimo composta con sola farina di frumento di altra qualità e con precise regole atte a renderla pura.
[10] In Il mondo dei vinti. Testimonianze di vita contadina, Torino, Einaudi, 1977.