A. Paganardi su Frisa
Ritorno alla spiaggia
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autori: | Lucetta Frisa |
formato: | Libro |
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Alessandra Paganardi, Nota di lettura per Ritorno alla spiaggia.
In ”Vico Acitillo 124”, Poetry Wave)
Le più belle pagine del libro […] di Lucetta Frisa, Ritorno alla spiaggia, […] sono, a mio giudizio, i 123 versi del poemetto Un’isola, dove mi sembra si raggiunga, oserei dire “senza sensi di colpa”, l’autentica naturalezza dell’emotività di Frisa. Avverto persino l’idea di una felice caduta di colore, quasi che da questo si passi, in virtù di in ipotetico taglio di montaggio, a una proiezione narrativa in bianco e nero da film di gran classe.
“La notte sbarcare sull’isola è prendersi le mani/ per tenersi in equilibrio il porto dondola al buio/ sotto le raffiche l’occhio acuto di Donatella, la risata/ di Renato le voci forti e nuove e l’ala di Mercurio/ ci spinge avanti eccovi sani e salvi stasera non si vede niente/ è tutto allagato non c’è luce attenti dove mettete i piedi. […] Osserva il profilo del monte Epoméo/ è lo stesso profilo all’alba/ il profilo di tutto quanto abbiamo visto/ se conoscere un luogo è essere quel luogo/ e se il nostro senso di un luogo singolo/ è quel che sappiamo dell’universo,/ dimenticare/ è la nostra sapienza./… Improvviso l’angolo di una terrazza/il brusio di voci e bicchieri/ il vaso dipinto nel museo/[…]Quante nuove parole dovremo aggiungere/ all’energia dei sogni?/ […] In un certo attimo dicono che tra sera e notte/ si vedano di colpo tutte le isole/ tutti gli arcipelaghi e le sponde della terra/ ma senza luci e velature/ una massa informe dietro l’orizzonte/ o davanti”.
L’abilità registica di Frisa la si capisce fin dall’inizio della lettura del testo, lei tesse, dispone, aggiusta (e se è vero che sia così per chiunque narri, il buon poeta rende più evidente ciò che desidera lo sia) persone, sentimenti e oggetti o quant’altro, dentro un filo espositivo, più che profondo. Riorganizza cioè molti elementi con modalità diversa da quella cui la poesia ci ha finora abituato: non in profondità, ma in una direzione rigorosamente orizzontale, lungo un’asse che però non schiaccia differenze temporali e spaziali, non azzera asperità, gerarchie, valori. È in questo senso che la sua nuova profondità – se in tale termine vogliamo impropriamente racchiudere il significato di qualità alta di un testo – Lucetta la raggiunge proprio nei punti di narrazione in cui prende le distanze diciamo dal sentimento forte. Insomma, essa non necessita, a mio giudizio, di un pathos profondo, fatto da mille teste (allorché il pensiero concettuale mima quello mitico), per creare anima. Frisa, a mio avviso, con tale orizzontalità coglie meglio quel paradigma dell’esperienza e della comunicazione passato-contemporaneità che si potrebbe nominare con la parola Complessità. Per questo, tale emozione necessita di elementi decorativi, in senso alto, e di un’accuratezza che striderebbe, dato il tema trattato nel libro, con un taglio di pura fisicità che a primo avviso potrebbe erroneamente sembrare più pertinente.
Ora questo processo di scarnificazione prevede, come resa poetica, un’affilata percezione di sé. Mi viene in mente […] la regia cinematografica di Antonioni che in un equilibrio asciutto sostiene il peso di quintali di esistenza, o altri film dove il colore persino danneggerebbe la compressione di passaggi emotivi ormai talmente assestati, che un’ immissione di coloratura sarebbe inutile. Non si può pensare di rendere più suggestivo il Gran Canyon con la presenza di echi.
Per dimostrare quanto dico, riporto un frammento del poemetto Poesia…, dove si legge: […]”che giunga/ un nuovo disordine dall’aldilà/ una nuova tradizione di baccante e anacoreta/-lezioni d’assoluto rimescolate in lingua animale/ […] tutti i miei fantasmi folli che danzano/ brividi sussurri musiche/ tra orrori colori strofe incantesimi un’orgia/ e cassetti a brandelli”.
Sono parole senza dubbio forti, ma sembrano gridate sott’acqua, la loro potenza è solamente lessicale, di tradizione cioè. Non costruiscono (neanche per l’autrice che chiede alla poesia, e non so quanto convintamene, un modo diverso di scrittura: se così sembra che esista) un’alternativa in cui poter andare ad abitare, emozionalmente intendo, In poeti di minor levatura, si potrebbe parlare di equivoco di materia trattata, ma non è il caso di Frisa che “sbalza” in modo evidentemente necessario un tono di colore su un altro, per dar rilievo, io intendo, alla nitida tinta argento che è propriamente sua. Si può notare infatti la forza autentica e maggiore dei versi di Polvere.
“[…] Cominciamo dall’inizio: io, la casa e la polvere tutti i giorni./Non ho mai capito se spolverare sia evocare/condurre ieri qui davanti a me come un immutabile cristallo/ togliere via i miei secoli farmi dimenticata eternamente./ Sempre ho immaginato la polvere scendere di notte/ sopra il naso dei mobili su tutta la pelle della casa scendere/ al buio così non si può mandarla indietro./ Forse spolverare è un atto duplice come quando si nasce/ e si comincia subito a svegliarsi o a dormire/ secondo i punti di vista”.
La scarnificazione di cui parlavo, che niente ha a che vedere con un qualsiasi sentimento religioso (per lo meno dichiarato) qui genera ogni parola, con niente di disordinato o fuori equilibrio, pur entrando Frisa in quel sentimento o ricordo profondo che sta all’origine dell’intero libro. Scarnificazione non come “riduzione-dopo”, insisto, bensì quale forza del proprio essere che spolvera, toglie, cioè essenzializza, dentro la metafora e fuori da essa quel che neppure sembra efficace a un suo reale modus vivendi. Come dire, volente o no, ci dà l’idea di uno sforzo di azzerare, per quanto le sia possibile, il passato per giungere a qualcosa di assolutamente autonomo, in cui, aggiungo, la scrittura non supera mai la propria semantica. Pur raffigurando il senso della perdita e anche della piccolezza umana, i suoi versi assumono un’aura di bellezza che elimina l’estasi tout court del sentimento e sfiora la sintesi della ragione. Cioè spezza le due facce della stessa medaglia, perché spazza via il concetto di possibilità illimitata presente nella sovraesposizione di tanta poesia iconografica, estetizzante, quale ingenuo o calcolato godimento di tutte le possibilità dell’intelletto.
Mi piacerebbe approfondire la polvere frisiana, che non è certo il pulviscolo che si genera ovunque e dovunque su qualunque cosa. A me sembra l’espressione, tradotta in limiti umani, di sedimentazioni geologiche che all’autrice danno una sorta di conforto, quale forza interiore di anonimato e durata. Questo spiegherebbe l’affanno di toglierla di mezzo e, allo stesso modo, di “sentirla” scendere di notte a comprimere gli strati del suo canyon- casa e contro la quale lei non può che agirci dentro nell’atto di toglierla, inglobando ella stessa, per ingoiamento, un senso di tempo lunghissimo. Desiderio, insisto, di eternità e perdita di memoria personale. Giacché l’eternità non si attua che così, con un’immersione, in questo caso tellurica, per annegamento del tempo personale.