Alfredo Rienzi per Galleria del vento di Luigi Cannillo
![]() Galleria del vento
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autori: | Luigi Cannillo |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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Con Galleria del vento Luigi Cannillo torna dopo quasi un decennio a pubblicare un volume di poesie dopo Cielo privato del 2005 e Cieli di Roma del 2006. Un autore saldo, ben radicato nelle realtà del qui ed ora (mi piace ricordare la sua presenza in diverse iniziative in ambito carcerario), che singolarmente usa nel titolo ancora un elemento aereo, in questo caso il vento, ma un vento che necessita, per avere un senso e un fine, dell’incontro-scontro con la materia dei solidi, e in particolare con quella particolarissima del «corpo», cui «tutto è assegnato»: luce, sangue e pianto, vetro e velluto, leggerezza di piuma e peso di «fondamenta», ma anche consistenza di «fumo», eco di «assenza», destino di «esilio».
A distanza di due anni dalla sua pubblicazione, Galleria del vento è stato oggetto di cospicuo interesse critico e numerosi interventi vi riconoscono uno scatto decisivo nella scrittura di Cannillo. Nulla più, oltre a questa positiva valutazione, ho voluto attingere da quanto altrove commentato, per dare un senso a una mia impressione di lettura personale e che non nascesse già usurata e preindirizzata. L’eterno dilemma della prefazione o della postfazione.
Luigi Cannillo ha e mostra mestiere, sulla pagina, ma a poco servirebbe se la sua voce, tanto misurata quanto «palpitante», non scendesse nella profondità delle istanze in primis conoscitive che pone. La domanda fondamentale è già in esordio, attraverso la metafora che fornisce il titolo:
«Chi scuote questa galleria del vento/ dove oscillano fiori e fondamenta/ e palpitanti ci animiamo?», (p. 11).
L’interrogazione di questo segmento del percorso dell’uomo e del poeta (lo «scrutare il traguardo»), di questo “secondo tempo della vita” (dalla Prefazione di Sebastiano Aglieco, sensibilissima fin quasi all’amalgama con le sostanze della raccolta), è scandita dalle nuove prospettive cui fatalmente conduce il passo, dal riconfigurare le presenze e le assenze. Tra le quali assolutamente fondante sono quelle (presenza e assenza) della madre. L’Ordine della madre, prima sezione del volume, è una vibrante ma equilibrata, nel senso letterario del termine, rappresentazione del dolente rito di passaggio: di lei, al suo nuovo insondabile ordine, e del poeta, al suo giorno seguente, con la trama dei ricordi, dell’attesa illusoria, del ripercorrere un ordine delle cose orfane, del compimento del lutto. Pare agevole scorgere i modi che il celebre antropologo Van Gennep assegna, progressivamente, alla separazione, alla sospensione e alla riaggregazione:
«Gli oggetti della casa anticipano il lutto/ […]/ tace la ragione quotidiana/ che genera vita nei ritratti/ e matura le fruttiere/ Ma noi non possiamo seguirla/ in uno sciame di anime e di oggetti/ che si ricomponga in ogni luogo/ Qui ogni parete aspetta/ di aprirsi al ritorno», (p. 17);
«È tornato anche stanotte/ l’ospite premuroso/ caldo di sangue e pianto/ ha ripreso il posto tra i vivi», (p. 19);
«Vedi, tutto si riduce ad attesa/ il superfluo brucerà nella memoria/ […] / È così che l’orizzonte viene a riprenderci», (p. 20); «Il tempo adesso è tutto nostro peso/ le ore firmano la fronte di chi resta», (p. 22).
Nella entrata-discesa in un tempo mutato, nello scrutare il nuovo orizzonte, l’occhio si espande, accoglie ogni elemento del macro e del microcosmo che possa portare segni utili a proseguire il cammino, a «percorrere ancora/ la parte spoglia del giardino/ nell’ultimo tempo immobile» (p.48): li cerca, questi segni, nel ciclo delle stagioni e della vita e nel sovraordine delle carte celesti, senza mai staccarsi del tutto dal «profilo sulla parete/ nel vuoto scavato nell’aria». In questo senso si compie il viaggio rotatorio attorno ai segni dello Zodiaco, al loro essere contemporaneamente oltre e qui, in quel ricettacolo corporeo che il tempo svuota ma che la vita pretende con energia di fuoco e d’artiglio.
Un percorso tra cielo e corpo, tra luce e strada, dove noi siamo il cielo, dove i nostri sguardi prima volano tra stelle e arcobaleni, poi «rasoterra a raccontare/ Tutti guardano in alto, cercano/ la presenza, mentre qui sulla pianura/ pulsa riflessa la stessa luce», (p. 66).
La compiutezza espressiva di Cannillo, nelle quattro sezioni di Galleria del vento è costante, la scrittura, attentamente governata, s’incanala su un solco di sobria medietà linguistica, senza cadute e senza forzature (al più si evidenzia una assenza di punteggiatura); l’espressione sorvegliata e attenta vive nel continuum tra idea, immagine e parola. Non per un’improvvisa quanta improbabile discesa della Musa, ma per il necessitante confronto con l’esperienza: «Nel passaggio impariamo/ a misurare la lingua/ affilare anche l’arma del silenzio», (p. 38).
L’esito complessivo è alto e raggiunge, a mio parere, il livello più elevato dove l’occasione poetica è meno condizionata dall’architettura della sezione, cioè nella prima (L’ordine della madre) e nella terza sezione (Il rovescio del corpo), ma confermano la tensione d’insieme e le risonanze interne della raccolta le altre due sillogi, “12 segni” e “Berliner”, che ci consegnano squarci illuminanti sui tema dell’assenza, della «ferita» e della mutazione:
«Nel nome della madre/ completeremo il cerchio dell’esilio/ noi stessi madre tramandata/ nella consolazione», (p. 34);
«più dell’innocenza/ pesa la ferita ricevuta/ il carico ostile dell’assente», (p. 37);
«Per l’errore e la pena/ perché il tempo che flagella/ impone una rinascita», (p. 59);
«Diversi sono il viaggio, e l’attesa/ il passo sospeso sulla nuova soglia/ ma l’esilio è seminato ovunque», (p. 64);
Il tema del «corpo», così centrale in tanta filosofia e poetica dal Novecento, viene declinato da Cannillo, come in precedenza accennato, con il registro della conciliabilità (o della velata ambiguità) tra la rarefazione del «sogno» e la densità della «fibra», tra «estasi o tortura», a metonimia, con polarità non necessariamente pre-orientate, delle dualità fondamentali spirito/materia, sonno/veglia, alto/basso, pensiero/parola, per usare l’alfabeto elementare della questione, senza l’uso-abuso di lenti filosofiche e teologiche per la lettura dei testi poetici:
«Tutto è assegnato al corpo/ pronto alla fuga, alla sua lingua/ inquieta che si deposita e alimenta, perfino il suo esilio sulla pagina», (p. 45);
«tutto nel corpo risplende/ compone un doppio tesoro/ Presenza in sé compiuta/ per il mondo che racchiude/ E fenomeno nel cosmo/ tramite di luci e vuoto», (p. 53)
Ed è un tema che viene ad svolgersi in uno scenario, che nonostante una certa dose di sensualità materica («i corpi consegnati alla stretta/ dell’altro […] seguendo la vena più calda»; «ci unisce il fiocco delle gambe») è sorprendentemente notturno e onirico, delineato e attraversato da «soglie» e da «dialoghi nel sogno»: pare risentire, ancora, dell’esperienza dell’assenza, fattasi categoria ora non solo potenziale ma attuale. Nulla pare poter riassumere la pienezza perduta, né il corpo, che anzi reca in sé la proprietà fondante del «commiato», né il risveglio, dove nessuno più aspetta e dove il dolore risuona dopo la notte «nostra infinita unica vita». Una pienezza perduta, non più ricomponibile, ma inevitabilmente ancora inseguita con la struggente consapevolezza del limite imposto. È in questa sezione che i testo si prestano a più livelli di lettura e di interpretazione, corretti o arbitrari poco importa in fondo, e forse anche per questo fioriscono qui alcune tra le più suggestive sequenze di versi: «Sul letto danzano in una stampa/ parallele una piuma bianca/ e una foglia d’autunno/ come sopravvissute alla materia/ La casa spoglia, mentre fuori/ la neve scende fitta senza vento/ e il sonno come neve/ … », (p. 49):
Alfredo Rienzi
marzo 2016