Anna Spissu, nella sua raccolta “La donna albero e altri animali” (La Vita Felice, 2025) pone al centro della narrazione poetica la relazione tra umano e natura. La natura, selvatica e originaria, esercita un forte richiamo e rappresenta il luogo rigenerativo in cui immergersi per ritrovarsi:“Venivo dalla città alla foresta / per cancellare obbedienze e doveri”, perché dentro ciascuno di noi dura e sopravvive l’anima animale, come si legge fin dalla dedica.
Protagonista e voce narrante della raccolta è la donna albero, figura femminile dal doppio segno, in cui ritroviamo la natura umana e quella animale e vegetale. In un testo esemplificativo, infatti, leggiamo: “Non sono straniera / alla foresta. / Ho un corpo per metà albero / e per metà animale.” La donna albero esprime la fusione panica della creatura umana con gli altri regni da cui attinge e scambia caratteristiche anche simboliche, senza smarrire la propria identità, ma ristorandola in una sempre possibile rinascita. La delicatezza e la forza del sentire femminile connesso all’aria, alle radici, al sottobosco, si affermano nel verso “Io sono la selvatica”, che troviamo in più di una poesia. La donna albero richiama alla memoria la bella Ermione di D’Annunzio, che si impregna di pioggia e mischia sensualmente alla pineta estiva. Non mancano accenni alla forza del desiderio, all’abbraccio, alla bellezza del corpo che gioisce, e versi che celebrano femminilità e fertilità, la potenza generatrice che accomuna alla primavera, alla Natura: “le dita dei rami / conoscono con precisione /lo sforzo di venire al mondo […] / Che la vita abbia inizio / è inciso sulla corteccia /di ogni albero della foresta, / anch’io d‘altronde / ho in sorte un segno sotto lo sterno /e un altro per la dolcezza e la vita /in mezzo alle gambe.” La donna albero non è l’unica figura femminile della raccolta: compare, infatti, anche la moglie gitana del padrone del rifugio, con capelli corvini e “un bagliore orgoglioso di femmina / che scende come pioggia calda” a ricoprirla. Emana lo stesso senso di libertà dei cavalli non ferrati, “senza sottomissione” che compaiono la mattina presto davanti al rifugio, come una visione. E’ indomita, piena di libertà.
Le altre figure umane, invece, sono maschili: il padrone del rifugio e suo figlio. Il primo intrattiene gli avventori, indica loro la strada, racconta storie ed è custode di questo luogo prodigioso che a sua volta lo protegge. Il figlio sceglie invece il mare.
Anche i bambini conservano nella leggerezza dell’infanzia una natura boschiva: “I bambini più di tutti sono alberi: / sotto sembianze umane / appartengono a lungo / al regno vegetale” e proprio come piante trasformano in ossigeno “il peso del giorno”.
Piante e animali divengono simboli di caratteristiche umane o aiutano, per simmetria, a conoscere parte del mistero che abita l’uomo, secondo il procedimento retorico tipico dell’analogia, come possiamo leggere nei testi che riflettono sulla cattiveria del lupo o sul luminoso gioco di seduzione delle lucciole.
Il rifugio è l’elemento antropico del paesaggio, ma non è in contrasto con esso, anzi, dialoga con quanto ha attorno e diventa luogo di osservazione di una natura che muta con la luce e con l’oscurità. “Il rifugio esiste da settant’anni, / i boschi lo proteggono, / […] Alcuni dicono / che quando non c’è gente / la casa parli con la foresta”.
La presenza umana è qui sempre discreta, tanto che anche le scelte lessicali (poche le eccezioni, come “generatore”, “asfalto”, “auto”) escludono quelle parole che abbiano un rimando preciso alla città e alla sua presenza. La città resta un luogo altro, distante. Si respira un’aria di fiaba o d’incantamento, in cui di giorno e di notte, la natura offre un diverso spettacolo di animali, forme e vegetazione. Se la luce dell’alba determina il risveglio degli uccelli, la notte richiama fuori dai nascondigli e dalle tane quelle specie che si sentono sicure nell’oscurità, come i gufi e gli istrici. La notte rivela, poi, la volta del cielo e un sipario di stelle che unisce la dimensione cosmica e ultraterrena a quella terrena. In sintonia con l’immersione panteistica nella natura, esiste un “dio-vocedellaforesta” che permea i boschi e i luoghi, o spia dalle stelle, certe volte ascolta la confessione delle foglie e delle radici, altre, invece è il Dio rivelato che sente la solitudine. E diventa interessante notare il cambiamento tra l’uso della minuscola e della maiuscola per indicarlo. Anche attorno al rifugio la radura offre uno spazio diffusamente religioso per “i molti che vengono a pregare nel prato” la domenica.
Le nuvole sono una presenza costante all’interno di tutta la raccolta e scandiscono, attraverso le sezioni, un prima, un mezzo e un poi. Scorrono come un time-laps, a volte bianche e soffici, altre nere e minacciose, sono le guardiane del cielo sotto il cui mistero ha inizio il mondo. Nella loro natura mutevole, possono assumere svariate forme e ricordarci qualcosa per somiglianza, possono sembrare neve, e dunque, ingannarci. Contribuiscono a creare, certamente, uno scorrere del tempo che non può che essere ciclico e assecondare l’avvicendarsi delle stagioni, non solo quelle della natura, ma anche quelle umane: “Ogni primavera lo sterrato / mostra i segni dell’inverno passato […]. Inverno dopo inverno / vivono, resistono, tornano. / Fallo anche tu mamma.” Non mancano richiami a lutti familiari, sofferenze e nostalgie che come il desiderio e la gioia appartengono ugualmente all’esperienza di stare al mondo e di interagire pienamente con esso, cercando il nostro destino e lasciando che la vita risuoni nel nostro corpo, strumento necessario per partecipare coralmente all’universo.
Il tono lieve e lirico della raccolta riproduce, attraverso la dolcezza e la chiarezza del linguaggio, lo stato di quiete e di intima connessione tra gli elementi, tale per cui “ogni cosa è pace, vita soddisfatta”. La libellula non increspa la superficie dell’acqua e l’io poetico non produce alcun rumore, non disturba, tenta di trasporre in parole che non passino, che siano in grado di far durare, la Bellezza di cui è spettatore. E’ la pace che accomuna il giorno del riposo dopo la Creazione alla beatitudine che prova l’io poetico quando respira in un bosco e quando scrive. Così, questo ultimo passaggio, arriva a coinvolgere nella stessa immersione totalizzante, non solo corpo e spirito, natura e ultraterreno, ma anche la dimensione del linguaggio, in particolare di quello poetico. L’augurio finale, infatti, lega insieme le parole, il figlio, la donna, l’uomo – il mare, il cielo e la terra: “Non passino le parole / non se ne vada nessuno mai, / c’è un figlio che guarda il mare / una donna che vola / e una foresta che protegge un uomo.”
Alice Serrao