Anteprima poesia - Silvia Giacomini - La tentazione di essere vento
11.10.2014
![]() La tentazione di essere vento
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autori: | Silvia Giacomini |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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Un corpo che divora se stesso è un grido. E' un disperato atto di scrittura del dramma umano di esistere. Non mi piace definirla malattia, sono contraria alla tendenza della psicologia clinica a smembrare e catalogare l’abisso della sofferenza umana in definizioni che lo rendano, illusoriamente, governabile. Perché la malattia presuppone una cura, ma curare per guarire, in certi casi, significa azzittire ciò che chiede ascolto. Le cosiddette malattie dell’anima ci parlano dell’anima, ci costringono ad ascoltare ciò che di solito ignoriamo per la paura di precipitare in quel fondo in cui risuonano le nostre grida soffocate, le domande come ferite aperte, nere e vive, che minacciano la stabilità del nostro sistema di menzogne.
L’anoressia ci parla di noi. Il suo discorso è molteplice, tanto variegato quanto diverse l’una dall’altra sono le anime che ne patiscono il messaggio, le storie e i tessuti di esperienze in cui esso si inserisce con violenza talvolta mortale. Sotto il simile, o identico, involucro della magrezza eccessiva c’è una sofferenza profonda e incomparabile che, dietro lo stigma delle generalizzazioni diagnostiche, porta il nome unico della persona che la vive. Una sofferenza che si misura tragicamente con l’inadeguatezza delle parole a renderne testimonianza, che non trova altro modo di farsi ascoltare che incarnarsi in un grido di silenzio.
Un corpo anoressico dice, innanzitutto, della difficoltà di comunicare, del fraintendimento e delle vessazioni a cui va incontro chi cerca accoglimento d’ascolto quando chi dovrebbe ascoltare non ha il coraggio dell’umiltà, ovvero non è disposto a correre il rischio di veder sfondate le recinzioni della proprie certezze dalla realtà indecifrabile del dolore altrui.
L’anoressia è il parto di una società che tende alla robotizzazione degli individui per farne delle perfette macchine al servizio dell’economia, oltre che di un convivere disincarnato, dalle relazioni finte, dai sentimenti anestetizzati per la paura di dipendere. L’attuale, e delirante, tendenza a considerare malattia ogni sintomo di forte vita interiore sbriciola la profondità dei sentimenti dentro i barattoli delle dipendenze affettive. Come se vivere non fosse essenzialmente dipendere dai legami che ci costituiscono e ci nutrono. Senza relazione e legame tra le nostre singole cellule il nostro corpo sarebbe morto. Senza legami e relazioni profonde, emozionali, tra tutti gli esseri viventi che sono parte di un mondo, a essere morto è il mondo.
S.G.
Il libro d’oro di Silvia Giacomini sollecita una riflessione. Il suo è uno spazio, eticamente bruciante, entro il quale le parole significano per la loro cifra carnale di nudità estrema – di inaudita purezza, la purezza che si rende carne, e carne gridante, attraverso le bruciature del dolore.
[...] la scrittura (tenera ansia comunicativa, incline talvolta al rumorismo del grido) dell’autrice rintraccia nella sua costante tensione facitrice – nella sua «tentazione», che è anelito in procinto di realizzarsi o di soccombere – il proprio operare entro un potenziale lettore, cui offre se stessa, in solidale e fusiva prossimità.
La pagina bianca, la notte oscura; la tentazione di tendersi, di articolarsi comprensivamente dentro le cose come vento – in una scrittura che è spazio tensivo, «settima stanza» di offerta di sé –; la tentazione cristiana di perdersi nei mirabili, erotici meandri di Dio, di attuarsi nella lacerazione (che è sprone, e soffio) e oltre la lacerazione.
dalla postfazione di Matteo Mario Vecchio
dalla sezione I - CORPI DI UN GRIDO
Fabia, Adela, Milena, Elisa.
Tre donne anoressiche e una bulimica.
F
Nutro di me una me stessa più eloquente.
Questi scavi tra le costole
sono le impronte
dei suoi piccoli piedi di acrobata terribile.
Guarda come mi beve, come mi mangia,
come cresce limpida.
Quando sarà grande abbastanza
le dirò:
«Parla!
Dì degli uccelli di luce nera
che tutto, dentro, abbattono di colpi,
dì cos’è non poter vivere né morire,
penetra nelle armature come ruggine,
e all’indifferenza che stupra fino al cielo
gridalo che questo corpo
questa perversa eucarestia di un sangue mutilato
è il volto del loro non amore.»
Quando sarà grande
griderà l’innocenza della mia disperazione.
Poi zitta come aria che si chiude
dietro al solco di nave
di una melodia compiuta
mi prenderà tra le sue braccia fresche d’altra luce
e non sarò più colpevole di esistere.
A
Raccoglierò le mie ossa,
le infilzerò nel crudo della terra.
La luna del sangue
non rifarà delle mie rovine
un telaio di catastrofiche speranze.
Che resti del mio volto
solo la forma di un grido
incavato nel grano
mangiata dal mio cuore di rabbia
sarò nuda di una nudità perfetta
trasparente
oscurità stellata,
luminescenza della sete.
Allontanate questo pane
anche solo un’unghia di crosta
potrebbe rovinare il lavoro durissimo di anni,
la distillata tortura
di quest’opera grande.
Perché poi quando,
alla resa del vento,
il mio tempio d’ossa crollerà,
forse
nel sussurro di quel crollo
udrete l’inesprimibile urlo
di sapersi nati per morire.
M
Il mio corpo è un mendicante di pietà.
La pietà è un amore possente e puro.
L’orrido nitore del costato
è una preghiera che la lingua non osa:
piangete per me, fatemi sentire
che sono anch’io una cosa cara.
E
Burattini dei lupi o marionette degli angeli
la volontà è un pupazzo senza braccia
piantato in mezzo a un putiferio
di radici e unghie color cielo.
Sono gonfia di manicomio
dita in gola,
china sulla conca confessionale,
a tentare forsennatamente la parola redentrice,
dita in gola
come se un giorno logorato
potesse ritornare spazio.
Il futuro è il lungo fischio bianco
di un treno andato via
bianco come una cicatrice veterana.
La memoria è un grembo di cenere indurita
e mozziconi di prato bagnati nell’aceto.
Il concime del pianto brilla come vetri rotti
in una via dimenticata,
in un vicolo rimasto senza nome.
Tra il verde degli ululati
mi sono ingozzata di una felicità impossibile
e mi massacro di purificazione
per renderne l’inganno macerato
eccola la vita:
scivola giù a piccoli pezzi
in una gola d’argento e di fetore
verso il sottosuolo della mescolanza universale.
E adesso vuota
sono libera
di tornare a divorare
le carezze negate,
le pagine non scritte,
i premi e le consolazioni
che l’universo non ha voluto riservarmi,
il mio nome in bocca a un bacio
in una notte buona,
il buono che vivere non dà.
Nutro di me una me stessa più eloquente.
Questi scavi tra le costole
sono le impronte
dei suoi piccoli piedi di acrobata terribile.
Guarda come mi beve, come mi mangia,
come cresce limpida.
Quando sarà grande abbastanza
le dirò:
«Parla!
Dì degli uccelli di luce nera
che tutto, dentro, abbattono di colpi,
dì cos’è non poter vivere né morire,
penetra nelle armature come ruggine,
e all’indifferenza che stupra fino al cielo
gridalo che questo corpo
questa perversa eucarestia di un sangue mutilato
è il volto del loro non amore.»
Quando sarà grande
griderà l’innocenza della mia disperazione.
Poi zitta come aria che si chiude
dietro al solco di nave
di una melodia compiuta
mi prenderà tra le sue braccia fresche d’altra luce
e non sarò più colpevole di esistere.
A
Raccoglierò le mie ossa,
le infilzerò nel crudo della terra.
La luna del sangue
non rifarà delle mie rovine
un telaio di catastrofiche speranze.
Che resti del mio volto
solo la forma di un grido
incavato nel grano
mangiata dal mio cuore di rabbia
sarò nuda di una nudità perfetta
trasparente
oscurità stellata,
luminescenza della sete.
Allontanate questo pane
anche solo un’unghia di crosta
potrebbe rovinare il lavoro durissimo di anni,
la distillata tortura
di quest’opera grande.
Perché poi quando,
alla resa del vento,
il mio tempio d’ossa crollerà,
forse
nel sussurro di quel crollo
udrete l’inesprimibile urlo
di sapersi nati per morire.
M
Il mio corpo è un mendicante di pietà.
La pietà è un amore possente e puro.
L’orrido nitore del costato
è una preghiera che la lingua non osa:
piangete per me, fatemi sentire
che sono anch’io una cosa cara.
E
Burattini dei lupi o marionette degli angeli
la volontà è un pupazzo senza braccia
piantato in mezzo a un putiferio
di radici e unghie color cielo.
Sono gonfia di manicomio
dita in gola,
china sulla conca confessionale,
a tentare forsennatamente la parola redentrice,
dita in gola
come se un giorno logorato
potesse ritornare spazio.
Il futuro è il lungo fischio bianco
di un treno andato via
bianco come una cicatrice veterana.
La memoria è un grembo di cenere indurita
e mozziconi di prato bagnati nell’aceto.
Il concime del pianto brilla come vetri rotti
in una via dimenticata,
in un vicolo rimasto senza nome.
Tra il verde degli ululati
mi sono ingozzata di una felicità impossibile
e mi massacro di purificazione
per renderne l’inganno macerato
eccola la vita:
scivola giù a piccoli pezzi
in una gola d’argento e di fetore
verso il sottosuolo della mescolanza universale.
E adesso vuota
sono libera
di tornare a divorare
le carezze negate,
le pagine non scritte,
i premi e le consolazioni
che l’universo non ha voluto riservarmi,
il mio nome in bocca a un bacio
in una notte buona,
il buono che vivere non dà.