D. Santoro per R. Salvia
![]() Mi sta a cuore la trasparenza dell'aria
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autori: | Rosa Salvia |
formato: | Libro |
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Mi sta a cuore la trasparenza dell’aria, di Rosa Salvia
Pubblicato da lapoesiaelospirito su gennaio 6, 2013
di Daniele Santoro
Mi sta a cuore la trasparenza dell’aria (La Vita Felice, Milano, 2012) è il titolo dell’ultima raccolta di poesie di Rosa Salvia che riprende il primo verso dell’omonima poesia iniziale. Scelta non casuale e che impronta sin dall’incipit, all’insegna di una levità e grazia, questo canto dell’anima che si fa voce di un mondo interiore quanto mai ricco e variegato; canto che rende partecipe il lettore di quel capace immedesimarsi nelle cose quotidiane eppure solenni che solo sanno darci la varietà dell’essere umano, lo stupore della natura. Efficaci, incisive certe immagini poetiche che sincerano il frutto di una frequentazione della nostra (e anche classica) migliore tradizione quale si evince – sovente et scopertamente: da alcuni aulici lemmi (“agape”,“cinereo”); da certe costruzioni superlative (impreziosite da enjambement come in “bianchissimo buio”); da talune citazioni latine (“amica silentia lunae”); dagli espliciti richiami alla mitologia greco-romana (“nottola di Minerva”, “canto di Orfeo”); da certe descrizioni del paesaggio che non si risolvono mai in semplice bozzetto naturalistico, bensì invece in sintonico luogo dell’anima, come in questa strofa, per esempio: “uccelli d’anima che incidono / il pensiero / piegato al vento sacro della bellezza” dove l’isolata parola “pensiero” è incastonata efficacemente tra due quadri naturalistici.
Poesia lirica, leggera, intimista eppure rocciosa, magmatica, nondimeno carnale e passionale come quando, non cedendo alla facile retorica dell’eros, canta – nei testi che animano, soprattutto, la seconda parte del libro – l’amore per l’amato, l’affetto riservato alle amiche del cuore o ai propri cari, oppure quanto affronta temi delicati e feroci come la guerra, la violenza sulle donne o sui bambini.
Affondiamo la bellezza nel sangue
Affondiamo la bellezza nel sangue
dello stupore in spazi incantati
fra sospensioni dell’accadere
vaghezza di affetti e di umori.
Doniamo, nel respiro delle foglie,
la musica rugiada della selva
all’anima ferita.
Ascoltiamo ciò che le cose hanno da dire
in un silenzio di neve.
Illuminiamo sogni
con la punta delle dita
come i bambini che giocano con le frange
del sole nei giardini
imparando a meditare gli alberi.
***
Intermezzo di luce
Ed ecco che s’incendia nella sera
la nostra frenesia d’accordi
e il bacio muore soffocato
in un nugolo di sabbia –
la luna s’alza
Afrodite dal mare
le barche legano
le loro lanterne di lucciole alle rive
si sfaldano i nostri corpi
vagano qua e là, nevicando farfalle
e diamanti fra rocce e dirupi,
fra domande e silenzi –
poi guardano in cielo le stelle,
e la ruota,
l’infiorata dell’acqua al timone.
A mia madre
Quando un essere umano invecchia
ridiventa bambino
e tale, in effetti, lei mi sembrava
in quel letto d’ospedale in cui
sporgeva le labbra,
come se volesse essere allattata,
e con le dita sfiorava ogni cosa
che luccicasse.
Nel cervello di mia madre
vi doveva essere un disco rotto,
o forse un piccolo ventilatore
che nel giro di qualche secondo
aveva spazzato il polverume
della sua vita.
Sui suoi occhi sospesi in mezzo
all’ombra
la mia mano disegnava, oscura,
una carezza
il cuore gonfio dei suoi giorni perduti,
dei miei giorni vissuti
senza spazio – con lei –
Al suo rantolo serrato
s’affidava il mio ritorno, l’amarezza,
la ferita ferrigna nella roccia,
quella pena nuda di dolore –
e poi radici, il loro intreccio,
le sue mani
schermo di fine vita
cosparse di ragnature e enigmi,
inizio e fine
l’attimo supremo.
Molto tardi rientrai nella mia casa vuota.
***
Roma città eterna
Amo le aquile
sole
in quel volo a spirale
cui s’affida l’ingegno.
Odio le cicale
che stridono insieme
sulle mie notti insonni che non amo né odio.
Penso alle mura edificate dai Padri
e distrutte.
So del vascello affondato da anni,
un naufragio da poco, il naufragio del mucchio.
Veglio su Roma
caput mundi
ornata d’una gorgone crocifissa al timone.
Quant’è bella!
Incrocio i tuoi occhi
in cui ardono le rose sfogliate
dei minuti che furono.
Desidero abbandonare ogni cosa
e passare a un’altra stella,
un’ultima stella.
Chiedo che mi lasci una penna,
un quaderno, un Maestro,
Il maestro e Margherita, anche lei,
certamente,
ed il sogno
il mio sogno bambino della mezzanotte.
Mi sono svegliata con questa testa di marmo
Mi sono svegliata con questa testa di marmo
fra le mani che mi sfinisce i gomiti
né so dove poggiarla.
I miei occhi: né aperti, né chiusi,
la mia bocca: in procinto di parlare
poco, reggo gli zigomi che bucano la pelle.
Non reggo più,
gocciola il respiro come un filo di sangue,
anche se in cielo le ultime rondini,
guizzando d’aria felici,
sanno di miracolo.
Non reggo più questo mondo che c’incalza
dentro la furia della sua agonia,
questo mondo di umori vischiosi che colano misteri,
questo mondo di maschere di fango,
rassegnate a rimanere sorridenti o aggrondate
per sempre,
chiuse nella loro vanità,
che s’inquietano facilmente
se tu le denudi.