Non ci sono dubbi ormai sulla bravura poetica di Marco Onofrio, sulla sua tenuta. C’è ancora qualcuno che, forse in malafede, vorrebbe relegarlo appena nel recinto della critica, e con aria di sufficienza in quello della narrativa; occorre invece fare i conti seriamente con un poeta che, anno dopo anno (mi pare che questo sia il suo tredicesimo libro in versi), si è conquistato un posto di prestigio non solo nel panorama poetico italiano, ma anche in quello internazionale, viste le recenti traduzioni in romeno, in spagnolo, in albanese.
“Anatomia del vuoto” (Milano, La Vita Felice, 2019, pp. 80, Euro 13) credo sia la sua opera più densa e più impegnata, una sorta di summa del suo pensare in poesia, un riepilogo di esperienze che, partendo dal dato personale, attraversano le istanze di Eliot, di Pound e di Luzi, con un piglio metafisico di molta sostanza, tanto da far dire, in modo impeccabile a Gianni Maritati, che “Le poesie di Marco Onofrio, intense e pure, ci invitano a un processo di consapevolezza, a una riappropriazione non banale e superficiale di noi stessi, della nostra identità e del nostro futuro”. Giudizio che illumina da dentro la poesia di Onofrio, che ci porta a considerazioni non sospette per assegnare un posto di privilegio a un poeta che scava e distilla, accende lumi dove sembrerebbe che ci sia la miseria del vuoto, e dirama le essenze verso le ascensioni della parola che così perde il suo peso ancestrale per diventare messaggera di istanze nuove.
Credo che soltanto a sfogliare l’indice e leggere i titoli delle composizioni si riesca a percepire il “peso” di una condizione umana, filosofica e sociale che questa poesia scevera e porta ad esiti impareggiabili. Sì, impareggiabili, perché Onofrio non cincischia, non adopera stratagemmi oscuri per penetrare nel mistero del tempo e della fisica, ma entra con sicurezza e caparbietà nel magma oscuro delle ipotesi per renderle plausibili o addirittura verità inconfutabili. Il vuoto è un argomento scottante e pericoloso, molti poeti si sono cimentati in appropriazioni lecite e illecite per decifrarne il cammino, l’essenza e le funzioni, due nomi di poeti e due nomi di narratori per tutti (Lorenzo Calogero, Margherita Guidacci, Emil M. Cioran, Roberto Walser), ma in Onofrio il vuoto diventa pienezza di approdo, risorsa per poter respirare e comprendere e, soprattutto, porre domande:
“In quale luogo irraggiungibile le forme
si sono trasformate? O, sciolte
dalla loro identità, oltre la soglia,
sono rientrate in utero a sognare
destini dal possibile infinito?”
Potrei proporre molti esempi dell’assillo che Marco Onofrio sente nei riguardi della dissoluzione del vivere e del morire, delle identità che si sfaldano, dei processi che arrancano in disfatte prive di appigli con la realtà, ma basti dire che il poeta non teme, dopo le analisi e le scorribande nel vuoto, di affermare:
“Così, sperimentando il vuoto,
siamo tutti anime in cammino
verso la pienezza
dell’eternità”.
“Il suono del vuoto” e “L’officina del vuoto” mi hanno catturato in maniera totale non solo per le tesi messe sul tappeto, ma soprattutto per la maniera elegante, forbita e intensa con cui vengono posti i quesiti e raffigurate le immagini, fino a giungere ad esiti come “l’immensa solitudine del cielo” , “L’officina del vuoto / crea lo spazio trasparente / che ci fa muovere”, che sono vere e proprie perle liriche foggiate però sul calco della fisicità. Operazione che sostenta tutto il libro e ne dà l’ammaliante repertorio di cui Onofrio ci fa dono.
Dunque “Anatomia del vuoto” non è lo sfogo occasionale di un poeta che di tanto in tanto entra ed esce da questa problematica. C’è qui una ossessione che traduce le ansie del tempo e della storia, del visibile e dell’invisibile, fino alla constatazione che “Tutto vola, tutto rotola nel vuoto. / Anche il vuoto”.
Dante Maffìa