Diciassette sillabe per una poesia: è l’antica arte dell’haiku (G. Mastrullo)
23.02.2014
Prima di essere considerato come la forma letteraria Zen per eccellenza, non era che un divertimento creato dalla borghesia giapponese del XVI secolo. Ciascuna poesia fa riferimento a una stagione (le nostre quattro stagioni tradizionali più il Nuovo Anno, considerato proprio come una quinta stagione), che servirà a classificarle, assegnando loro un ordine naturale. Sono frequenti l’allitterazione, l’assonanza e l’onomatopea. Talvolta è anche usata una sequela di monosillabi che permettono all’orecchio di allungare il verso che sembra troppo corto. La rima non esiste. Tre grandi maestri: Bashō, Buson e Shiki
L’haiku, prima di essere considerato come la forma letteraria Zen per eccellenza, non era che un divertimento creato dalla borghesia giapponese del XVI secolo, una sorta di gioco di società senza grandi pretese che richiedeva, a coloro che lo praticavano, solo una certa vivacità di spirito, unita a un’abilità nella padronanza della lingua. E' probabilmente grazie a Bashō (1644-1694) che l’haiku, spogliato infine dagli orpelli e dalle banalità che lo condannavano, è diventato arte in tutto e per tutto, ricongiungendosi alle altre grandi arti giapponesi, quali il sumi-e. Questa breve poesia di 17 sillabe, costituita da tre versi rispettivamente di 5, 7 e 5 sillabe, deriva dal waka o tanka (5-7- 5-7-7) dello tsugi-uta o renga (liriche a catena divertenti), di cui formava i tre primi versi, o rime iniziali (hokku).
Questi tre versi diventeranno poesia solo grazie all’iniziativa di Bashō: l’haiku, per la sua stessa semplicità, per la sospensione che crea nella materia del mondo, sfocia in un istante di luce che prelude al risveglio. Il vuoto prende forma.
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