F. Palmieri per Coppola
![]() Mancina nello sguardo
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autori: | Floriana Coppola |
formato: | Libro |
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Floriana Coppola -“Mancina nello sguardo”- edizioni La Vita Felice, Milano.
Se si dovesse chiedere alla poesia di rinunciare alle forme espressive del sublime, se si dovesse chiederle di non cedere a un eccesso di vaghezza o a onnipresenti tentazioni estetizzanti, elettivamente o difensivamente ermetiche, ebbene la poesia di Floriana Coppola potrebbe essere una delle risposte possibili; un percorso che, pur senza l'abiura dell'eleganza formale, della cura-accuratezza stilistica, della vibrazione lirica o impegnatamente civile, sceglie invece uno dei caratteri primari, elementari ed essenziali, del dire poetico, fin dall'incipit della silloge quando scrive: “Cibo parola/poesia come pane [...]nutrimento per pochi inabili/ cibo dolceamaro” (pag. 13).
Una metafora-allegoria che trascende l'atto naturalistico del mangiare per affermare laicamente il valore eucaristico della 'parola', l'ingestione sacrale di un 'verbo' che sappia nominare, stanare e materializzare - quasi nell'esperienza storica dell'esserci - l' “oltre il visibile... l'immanente... ciò che rimane escluso” (pag.20).
E la poetica della Coppola, per molti tratti, è una poetica dell'esclusione, appunto; esclusione non come categoria astratta, teoretica, filosofica, non come cascame o effetto collaterale di una dimensione esistenziale borghesemente obesa, bensì come marchio bruciante di una condizione umana di marginalizzazione-espropriazione che è sincronicamente individuale, personale, sociale e collettiva. Da qui i luoghi simbolici dell' “esilio domestico”, della “pellegrina” in un deserto privato, dell'abitatrice di “una casa interiore/ (che) la scure ha tagliato a metà/ [...]e poi in quattro parti ancora/ sono seduta nel mezzo/ tra le travi// tra i vivi e i morti” (pag.24). E da qui, come fa notare Rita Pacilio nelle Presentazione, la levata di sguardo oltre i confini dell'Io, la visione spietata di un tempo spietato, di una Storia contemporanea insostenibile ed ancora escludente: “non so reggere il presente// la crisi mangia posti di lavoro/e ogni alba del mattino/ un mostro ingoia i sogni/[...]/ la speranza marcisce/ nelle scarpe slacciate dei giovani” (pag. 49).
Estraniazione, non straniamento, alienazione e non identificazione, spaesamento, sconcerto, indignazione e scandalo, sovraccarico progressivo di una memoria “affollata” che non conosce cedimenti e oblio, che si fa matrice e madre di “risentimento e furia” ma che per pause improvvise, rasserenamenti, è pur “il ripostiglio segreto del volto più prezioso/ del gesto che non voglio perdere/ e nascondo” (pag. 67). La memoria, quella soggettività altra e attenta, indeterminata e indeterminabile che sa comunque creare un distinguo d'integrità fra sé e una realtà spersonalizzante, violenta; una memoria che ancora sa dire convintamente: “ma/ io ho un difetto di fabbrica// amo” (pag.69).
Ed è questa resistente capacità d'amare - a dispetto di ogni tentativo pubblicitario di reificazione ora subliminale ora celato nelle pieghe di una cultura ufficiale trionfalisticamente ed oltraggiosamente ipocrita - che va coniugata la capacità di fare ancora poesia; un amare se stessi e l'umano che si traduce in ars poetica (seppure “dolceamara”), in una successione di liriche ora crude e crudeli ora “inanellamento e bellezza”. Del resto, emerge indiscutibile la sensibilità della mano che scrive: “e dietro la schiena/ le ali nascoste/ fremono/ il cielo” (pag.81); e nemmeno ci si può meravigliare se la visione di Floriana, a dispetto della percussività ossessiva del reale, del suo divenire sempre più realtà totalitaria, è “sguardo mancino”. “Mancina nello sguardo”. Lo sguardo altro, a lato, di chi sa comunque e ancora vedere la bellezza del mondo, la sorpresa, l'incanto mai vinto di essere vivi: “la bellezza/ tutta la bellezza/ che mi nutre” (pag. 66).
Ed è così che il pericolo d'estinzione dell'umano, del profondamente e irriducibilmente umano, è ancora una volta un pericolo scampato, una catastrofe non avvenuta. Almeno fino a che “lo sguardo” rimarrà “mancino”.