Fabio Michieli per Ancestrale di Goliarda Sapienza
![]() Ancestrale
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autori: | Goliarda Sapienza |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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“Ancestrale” di Goliarda Sapienza. Appunti di lettura, con una nota impropriamente filologica
Pubblicato il 7 novembre 2013 di Fabio Michieli
Separare congiungere
spargere all’aria
racchiudere nel pugno
trattenere
fra le labbra il sapore
dividere
i secondi dai minuti
discernere nel cadere
della sera
questa sera da ieri
da domani.[1]
Scrivere di Goliarda Sapienza poeta è avventuroso quanto scrivere di lei narratrice: è a tal punto una figura eternamente nuova nel panorama letterario italiano, che spiazza ogni volta la si affronti.
Certo, per l’autrice di L’arte della gioia di pagine importanti sulla produzione in prosa ne sono state scritte negli ultimi anni; ma è per le poesie raccolte in Ancestrale che si naviga praticamente a vista, assistiti soltanto dai contributi critici di Anna Toscano.[2]
Di Ancestrale si sa che è un libro compiuto (ma fino a che punto?) e non una raccolta di poesie ritrovate: così come lo possiamo finalmente leggere fu pensato e organizzato da Goliarda a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta del Novecento. Si sa pure che, messa la parola ‘fine’ ad Ancestrale, poche altre poesie furono composte, e che in vista di un’eventuale pubblicazione Goliarda avrebbe comunque voluto rivedere la raccolta, forse, ipotizzo, per ridurre ridondanze e ripetizioni tematiche. Inoltre, da quanto è noto di una lettera di Cesare Garboli a Goliarda, mi è possibile immaginare la fisionomia di quella che potrei definire l’Ur-Ancestrale: una raccolta che presumibilmente si apriva con A mia madre e si chiudeva con “È compiuto. È concluso. È terminato”, e all’interno conosceva poesie poi espunte, come una che inizi(av)a “Non so come ma andando” che sarebbe piaciuta in modo particolare a Niccolò Gallo.[3]
Fatto sta che a un certo punto su Ancestrale fu Goliarda Sapienza stessa a far discendere il silenzio; forse per una forma di pudore, tipico di chi è consapevole di non avere ascolto in una ‘società letteraria’ che attende altro dalla poesia; forse per stanchezza mista a orgoglio.
A raccontarci ora alcuni retroscena della raccolta è Angelo Pellegrino; nella prefazione,[4] Pellegrino ricorda il passaggio di mani di queste poesie: dal già ricordato Cesare Garboli a Niccolò Gallo, da Anna Banti a Roberto Longhi (che pure apprezzò i versi). Insomma tutti nomi che sul finire degli anni Cinquanta avevano il potere di dare il placet alla raccolta. Eppure, anche se Ancestrale incontrò il gradimento (vocabolo intriso di ipocrita pudore) della Banti e di Garboli (in questo caso, si è visto, un gradimento limitato a pochi testi), insieme a quello molto più importante, a ben vedere, di Attilio Bertolucci, non ottenne quella spinta necessaria per uscire dalle mura private, anzi dalla cassapanca nella quale venne riposto. È innegabile comunque che agì più di tutto la netta stroncatura di Mario Alicata (cieco tra i ciechi?).[5]
Ma già questa di Pellegrino è un’interpretazione a seriori, un giudizio che condanna la critica e contemporaneamente assolve in un certo senso la poesia prima ancora del poeta. Garboli in fin dei conti disse qualcosa di condivisibile allora come ora, cinquant’anni dopo (e Goliarda lo sapeva).[6]
Eppure Ancestrale è l’inizio di tutto perché Goliarda Sapienza nacque, sconosciuta ai più, come poeta; a partire dal 1952, in un breve periodo di pausa da impegni di lavoro con Citto Maselli, si fa strada in lei la poesia: «scrivere diventa il suo privilegiato rifugio […], dapprima, solo per giocare con le parole o per liberarsi dai propri pensieri angosciosi, ma col passare degli anni, la scrittura diventa per lei l’unico modo per non restare “mutilata nel corpo e nella mente”.»[7] Goliarda si scopre poeta di un’intonazione così intimamente lirica che non poteva trovare ascolto né tra gli amici, che nelle poesie vedevano una via per curare la malinconia (come nel caso di Franca Angelini), né tra i critici che Goliarda incontrava nei salotti romani degli anni Cinquanta, così fintamente engagé (si pensi ai versi di Sereni che fotografarono tutto ciò e che fecero risentire Fortini) da costituire la prova provata di una società letteraria ormai imborghesita.
Ogni parola presente in queste poesie è una scelta precisa: esprime un’esigenza di chiarezza interiore prima ancora di una manifestazione all’esterno del proprio mondo. Aggettivi, colori, forme verbali, tutto concorre alla creazione di un’espressione che forse ha il suo pendant non tanto nei romanzi, quanto piuttosto nei taccuini: è qui infatti che affiorano simili costrutti che associano più colori, per esempio, nella descrizione di un volto, un paesaggio, un luogo. E come accade nei taccuini, anche qui nelle poesie di Ancestrale il mondo di Goliarda si apre attraverso la descrizione di volti, corpi e luoghi. In Ancestrale non c’è Modesta: c’è Goliarda. E questo spiega perché simbolicamente per lei la nascita della poesia a un certo punto è fatta coincidere con l’evento tragico della morte della madre, Maria Giudice.
Sarebbe (e forse è) perciò un errore esegetico leggere Ancestrale sulla scia di L’arte della gioia, quando in realtà sarebbe corretto d’ora in poi guardare al romanzo tenendo in mano le poesie: il romanzo di una vita apre squarci sulla lingua e i sentimenti di Sapienza, ma non comprende tutto l’universo poetico di Goliarda. E così varrà anche per Ancestrale il ‘sottotitolo’ suggerito per il ciclo Le certezze del dubbio, ossia Autobiografia delle contraddizioni che a ben vedere non è poi tanto lontano da uno dei possibili titoli che Sapienza aveva ipotizzato per la sua raccolta di poesie: quel I luoghi ancestrali della memoria dove, proprio in virtù delle non poche contraddizioni riscontrabili nelle ricostruzioni a seriori del proprio passato, si può ravvisare il leitmotiv delle poesie. Sicché vale anche qui ciò che afferma Stefania Mazzone: «La memoria è giustizia nella narrazione della vita, il linguaggio vive al femminile, e il segreto vive nel tragico, ma se svelato [...] diventa dramma eroico, sopravvivenza, saggezza.»[8] E che questa valutazione invero applicata alla prosa valga anche per la poesia lo conferma un altro passo della lettera di Garboli a Goliarda Sapienza nel quale, delineando i tratti portanti di Ancestrale, il critico osserva che «una musica inconfondibile», che anima le due poesie fondamentali per lui, ossia A mia madre e “È compiuto. È concluso. È terminato”,[9] emerge da «una musica più generica», che agita le altre poesie intese come variazioni; ma quella nota ‘inconfondibile’ è pure «troppo originale, troppo potente, troppo in centro della terra e nel cuore delle cose, troppo [...] da tragedia greca.»[10]
Del resto, mi chiedo, la poesia di Goliarda Sapienza non nasce da un evento tragico che per forza di cose le si stampa eterno nella memoria? Non comincia tutto quella notte del 5 febbraio 1953 quando muore sua madre, Maria Giudice? Capovolto così il “benedetto” tricolon petrarchesco, il ‘canzoniere’ di Goliarda si apre in mortem per rimanere sempre e soltanto in mortem, perché morto è già da qualche anno anche il padre, Giuseppe Sapienza. Ed è nel segno di questo ricongiungimento nell’ora più estrema che Goliarda scrive per scavare fino alle radici, per trovare quella primordialità del suo essere donna, per ritrovare l’elemento ancestrale dal quale sgorgano le parole che l’hanno convinta della propria vocazione alla scrittura.
Ed è una ricerca che guarda solo a sé stessa: la storia immortalata è quindi riesumata attraverso ricordi d’infanzia o dell’adolescenza; il presente è il quotidiano crudo e reale; il futuro, se c’è, è la proiezione dell’attesa di una società che non sia dogmatica e allo stesso tempo figlia di un’utopia come lo è stata lei. Goliarda in poesia vuole liberare le forze della vita e perciò tentare una strada per la felicità (quella stessa felicità che per essere raggiunta in L’arte della gioia porterà l’autrice a mettere in scena tutta una serie di omicidi simbolici, rituali, necessari) attraverso l’uccisione dei propri demoni. Scrittura carnale, è stata definita, ed è vero perché i versi di Ancestrale trasudano passione e sentimenti, amore e sesso senza compromessi, senza pudori.[11]
Una poesia spoglia, essenziale, a tratti aspra, riarsa; una poesia che ha scelto una sua lingua che non ama gli aggettivi (spesso sono i participi passati ad avere una funzione attributiva) e che preferisce a essi i colori per descrivere stati d’animo, per esempio; una lingua tutta contesta di elementi che appartengono al vissuto quotidiano, capaci di scandire il tempo in ogni suo momento sia nell’ambito della giornata, sia nelle più dilatate stagioni, elementi assimilabili a un certo immaginario crepuscolare che non pare seguire alcuna moda (se non l’esordio coevo dell’appena scomparso, nel 1953, Rocco Scotellaro), quanto semmai anticipare movenze più tarde come quelle di Patrizia Cavalli. Una lingua che predilige un verbo all’infinito a una possibile partitura di coniugazioni; sicché il ricorso più o meno costante ai verbi all’infinito, anche nella forma riflessiva, si nota sin dalle prime battute: Separare congiungere… (p. 19); Non sottrarsi ma accoglierla… (p. 26); Ancora un’ora o due… (p. 30; qui compare un solo verbo per l’appunto all’infinito, “pulsare”, preceduto da un participio con valore attributivo, “dischiuse” [in riferimento alle “mani”]); Non posso chiudere gli occhi. Abbacinata… (p. 31); Voglio ricordare. Ma ho paura… (p. 54); Non andare rimani… (p. 77); Non scherzare… (p. 78); e così di seguito per tutta la raccolta, dove spesso un singolo infinito, o in coppia con un altro, accentra in sé tutta l’azione drammatica del testo («A te che hai gli occhi / azzurri / e i gesti lenti / e ti guardi le mani e non mi vedi / non restarmi vicina / non cercare / dalla sabbia calore / con quel gesto / che i miei sensi rallenta / e il mio sangue / trascina / in tramortite nostalgie»; p. 43). Accanto all’uso dell’infinito assoluto (o presunto tale) risalta pure la rilevante occorrenza di costrutti negativi, quasi sempre introdotti da “non”: Non sottrarsi ma accoglierla… (p. 26); Non posso chiudere gli occhi… (p. 31); Non questo era previsto… (p. 34); Non potrai più uscire… (p. 35); Non sapevo che il buio… (p. 45); Non ho potuto e in piedi… (p. 47); Non ricordo l’inizio del discorso… (p. 76); Non andare rimani… (p. 77); Non scherzare di notte fuori dall’uscio… (p. 78); Non abbiamo parole in sentieri… (p. 136); Non c’è niente che possa rallentare… (p. 137); per citare alcuni esempi capaci di disegnare la parabola dell’impossibilità pur sempre tentata, senza mai traccia di rassegnazione. E non passa inosservata, forse perché riconduce direttamente all’amato Leopardi, e seppure minoritaria nel numero di occorrenze, quasi tutta concentrata nella prima della raccolta, la presenza dell’avverbio “ancora”, spesso in apertura: Ancora un’ora o due… (p. 30); Ancora la memoria m’ha destata… (p. 42); Ancora una volta… (p. 44); «e il fermarsi è correre / ancora / di più» in Non sapevo che il buio… (p. 45); Abbiamo un termine… («Abbiamo un termine / per restare / davanti a questa / finestra / senza guardare / Ancora un’ora due / poi il bisturi del giorno / sezionatore», p. 85).
Anche l’anafora, o la più semplice ripetizione di termini all’interno di una stessa poesia, marcano in un certo senso lo stile di Goliarda Sapienza poeta, con una palese tendenza d’avvicinamento a un registro volutamente sliricato: tutta A mia madre (pp. 20-22) si regge sull’insistenza della ripetizione (Quando/Quando; Nessuno/Nessuno; Potessi/Potessi/potessi; per citare qualche esempio); come pure la poesia È predisposto… (p. 24), nella quale il costrutto si ripete per ben tre volte nell’arco dei dodici versi che compongono il testo; o ancora la ripetizione di «S’è chiuso il cerchio» in È compiuto. È concluso. È terminato… (p. 57); tutta A Nica morta nel bombardamento di Catania… (pp. 65-67); la quasi penniana Come potrò resistere alla notte… (p. 80); in Serrare i pugni… (p. 88); tutta A T.M. (pp. 104-6); in L’orma più grande… (p. 131); in Piangendo ci incontrammo fra le barche… (p. 142); in Sapere che tu esisti… (p. 146); fino alla conclusiva Vorrei all’ombra del tuo… (p. 160), preceduta, però, strategicamente dalla poesia A mio padre (pp. 157-59), vero e proprio polo antitetico alla poesia A mia madre, capace di connotare anche nello stile lo scarto verso il quale gravitano le ultime poesie di Ancestrale, quelle che decretano il superamento della morte come elemento di staticità: «Vorrei al ritmo / del verso / abbandonarmi ma / il tempo stringe / e devo correre / ancora» recita Goliarda, congedandosi.
Mentre fenomeni come l’elissi dell’articolo, la sintassi nominale che instaura un certo rapporto tra nominalismo e analogismo, l’uso di astrattismi e la resa transitiva di verbi intransitivi, denotano, se non una ascendenza diretta, quanto meno una familiarità con la grammatica ermetica nei suoi aspetti più espressionisti legati, non tanto ai maggiori esponenti (da intendere sub speciem Ungaretti), bensì alle declinazioni “minori” e perciò più vitali proposte da Gatto e De Libero, passando inevitabilmente attraverso la codificazione quasimodiana (dal quale però non discendono assolutamente quegli elementi che potrebbero costituire la “sicilianità” di Ancestrale); fenomeni, questi, caratteristici delle opere pubblicate tra gli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento e perciò facilmente assimilabili dalla giovane e avida lettrice Goliarda Sapienza.
Tutti questi aspetti, per ognuno dei quali bisognerebbe spendere più di un fugace accenno, partecipano alla costruzione della caratteristica peculiare di questa poesia “ancestrale”.
Sul versante che chiamo impropriamente filologico le domande che Ancestrale pone sono molte e destinate per ora a rimanere senza risposta. È evidente, a una più attenta lettura, che le poesie raccolte in Ancestrale avrebbero subito una sorta di potatura se fossero state pubblicate a ridosso della loro sistemazione d’autore: le ripetizioni ravvicinate, non solo di sintagmi ma pure di identiche immagini con leggere variazioni, suggeriscono questa mia considerazione, che attende tanto una conferma quanto una sonora smentita.
Alcuni esempi: la mancata uniformità nell’uso della punteggiatura[12] e delle maiuscole a inizio verso avallano la scelta di un’edizione fedele alle carte. Spesso la maiuscola è presente all’inizio di un verso, dopo un verso privo di punto fermo (come nel caso della già citata A mia madre); mentre in una diversa sequenza di versi, pur nella stessa poesia, può essere rispettato l’uso corretto («Non andare rimani / l’aria si gela intorno / alle mia mani / S’incrinano gli specchi / Nei tuoi occhi / l’azzurro ha vuoti / d’acciaio. Alle tue spalle / un’altra attesa spalanca i corridoi. / E non ho forza / di percorrerli ancora / non ho forza / di strisciare carponi / lungo i muri.»; p. 77).
Altre poesie prive di punteggiatura e con maiuscola incipitaria a ogni verso suggeriscono, di contro, una datazione antica assimilabile a quel retrogusto crepuscolare, già indicato sopra in altro contesto, in grado però di strizzare l’occhio alle esperienze del primo Bertolucci e di Caproni.
Un ultimo esempio, forse il più eclatante: le due poesie “Oggetti d’ombra le tue occhiaie…” e Messaggio sembrerebbero introdurre il lettore nel laboratorio di Goliarda,[13] senza però informare quale delle due stesure sia la prima. Di fatti, se accettassimo come suo naturale modus operandi il procedere a levare e non ad aggiungere dettagli ai versi, per non appesantirli e quindi sforare nella prosa, come ci viene suggerito da Anna Toscano,[14] queste due poesie quasi identiche rappresenterebbero un’eccezione ingiustificata, poiché Messaggio si differenzia per la sola quartina iniziale, dopodiché, dalla terzina successiva, il testo prosegue in modo pressoché uguale al componimento della pagina precedente (a v. 7 di Messaggio il participio “agitate” viene dislocato a fine verso rispetto alla precedente stesura, forse per ottenere una sorta di chiasmo con “brinate” del v. 6).[15]
Ma le cose, a mio avviso, vanno ben oltre lo stato del dattiloscritto e denunciano invece un problema legato alla curatela della raccolta. Passi la volontà di contestualizzare la poesia di Goliarda Sapienza nella storia della poesia italiana; passi la decisione di riportare alla luce la sua voce primigenia; passi ogni altra cosa, ciò non toglie che una “Nota al testo” si rende immediatamente necessaria non appena si incappa nella doppia stesura di una stessa poesia. Mancando però del tutto informazioni sulla natura del dattiloscritto, sulla datazione dei singoli testi, informazioni che dopo cinquanta e più anni si rendono automaticamente necessarie, ogni ipotesi per ora rimarrà tale fino a quando qualcuno non metterà le mani su quelle carte per parlarci della nascita, della crescita e, perché no, dell’abbandono di Ancestrale.
Si potrebbe replicare: filologia spiccia o ancor meglio futili dettagli; conoscere, però, lo stato reale dei testi può aiutare a comprendere la storia di questo nuovo capitolo di poesia ritrovata.
#Fabio Michieli
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[alcune poesie tratte da Ancestrale possono essere lettere qui]
[1] Goliarda Sapienza, Ancestrale (prefazione e cura di Angelo Pellegrino; postfazione di Anna Toscano), Milano, La Vita Felice, 2013, p. 19; d’ora in poi Ancestrale.
[2] Anna Toscano, La poesia ancestrale di Goliarda Sapienza, in «Quel sogno d’essere» di Goliarda Sapienza, a cura di Giovanna Providenti, Roma, Aracne editrice, 2012, pp. 191-203; ead., ‘Ancestrale’, finalmente, in Ancestrale, cit., pp. 181-93.
[3] Giovanna Providenti, biografa di Goliarda, riportando parte della lettera trascrive anche questo passo: «Due poesie della raccolta lo hanno colpito in modo particolare: “quella a tua madre (comincia quando tornerò) e l’ultima, quella che comincia È compiuto» (cfr. Giovanna Providenti, La porta è aperta. Vita di Goliarda Sapienza, Catania, Villaggio Maori Edizioni, 2012, p. 139). La lettera di Garboli è riproposta nel capitolo Scrittrice (1958-1961) e quindi riconducibile a quel periodo, anche se la Providenti non indica la data. Il passo è comunque testimone, se non ne forzo il senso, dei limiti precisi della raccolta che in quegli anni forse ancora non si intitolava Ancestrale, titolo che arriva dopo la cancellazione di altri, tra i quali Informazione biologica e I luoghi ancestrali della memoria (ivi, p. 138). Per quanto riguarda la poesia “Non so come ma andando”, a ricordarne il titolo è la stessa Goliarda in una lettera a Citto Maselli riportata sempre nella biografia: «Cittino caro, sono da Franca. Come stai? Ho telefonato a Cesare, il quale mi ha detto che Gallo ha portato a Firenze le poesie e le ha date alla Banti che le avrebbe lette. […] A Gallo è piaciuta molto anche Non so come ma andando – ti ricordi? / Una cosa importante, non per la pubblicazione ma per me, è che la sera che Gallo è stato con la Banti mentre loro parlavano le ha lette Longhi (il marito della Banti) il quale era entusiasta. Pensa un po’!! Mi sembra così strano in fondo ero convinta prima della prova Gallo-Longhi, che a noi piacessero perché le ho scritte io ma adesso sono un po’ rassicurata» (ivi, p. 139).
[4] Angelo Pellegrino, ‘Ancestrale’ ritrovato, in Ancestrale, cit., pp. 5-16.
[5] A distanza di anni, nell’ottobre del 1980, dopo l’esperienza del carcere, Goliarda consegnerà questa nota al proprio taccuino: «Fra le altre accuse nascoste e palesi viene fuori chiaro e preciso da parte di Citto e del suo clan che sono in colpa non solo con la società borghese, ma cosa più grave con la classe dei lavoratori: colpa senza appello, esattamente come quando cominciai a scrivere poesie d’amore e le diedi ad Alicata, venendo bollata come borghese individualista che invece di scrivere per la causa del proletariato scrive del privato, d’amore» (cfr. Goliarda Sapienza, Il vizio di parlare a me stessa. Taccuini 1976-1989, Torino, Einaudi, p. 117).
[6] Sempre nella già ricordata lettera, Garboli si esprimeva in questi termini: «non sono cose [le poesie], così mi pare, che vogliono essere lette e giudicate belle o brutte, o, per lo meno, vogliono questo soltanto un momento dopo: prima di tutto, vogliono essere capite.” Un giudizio questo che non mi pare così tranchant come invece risulta dalla prefazione di Ancestrale dove Pellegrino cita un’altra lettera di Garboli ma non questa. Ricostruzione parziale? Volontà di riscrivere una storia prima ancora che una storia sia stata scritta? Non saprei; ma è evidente che le pagine di Giovanna Providenti messe al confronto con quelle di Angelo Pellegrino in alcuni punti stridono, e stridono là dove incontrano i nomi dei critici influenti proprio negli anni in cui prendeva forma e vita Ancestrale (si veda qui sopra la nota n. 3).
[7] Giovanna Providenti, La porta aperta, cit., p. 107.
[8] Stefania Mazzone, Goliarda Sapienza: del femminile eversivo della scrittura, in Giovanna Providenti, La porta è aperta, cit., pp. 177-82, in part. p. 178.
[9] Ora in Ancestrale, cit., pp. 20 e 57.
[10] Giovanna Providenti, La porta è aperta, cit., p. 139.
[11] «Con la gioia / dell’occhio voglio / amarti straniero / nemico / uomo amante / nemico / Tu non sei padre / di donne come vuoi / sembrare / e se lo sguardo / addolcisci la / bugia del tuo / sesso s’affila / in una lama / Io non temo il / coltello / contenere posso / il suo assalto senza / sforzo e rubarti / lo sperma donna / e ladra la / natura m’ha / fatta per godere / e rubare / e sottrarti la / vita che tu temi / di dare uomo avaro / che sperperi / nei dubbi dell’essere / o del non essere / il tuo pene» (Ancestrale, cit., pp. 155-56).
[12] Anche se una nota a p. 17 informa che tale «uso della punteggiatura rispetta il manoscritto originale», adottando perciò un criterio prettamente conservativo.
[13] Ancestrale, cit., pp. 108-10.
[14] Anna Toscano, ‘Ancestrale’, finalmente, cit., pp. 181-93.
[15] «Oggetti d’ombra le tue occhiaie / brinate dalla sera in agguato / le tue mani agitate dal lutto della notte // Dalla cima del tuo grido / ora dovrai discendere in quest’albore / di vetri vagare // Chi segui? Chi ti chiama? Non ascoltare / il grido del tramonto sfracellato / nell’ombra del cortile / il cerchio del tuo gesto / nella sabbia devi tracciare // Nell’ombra del tuo petto accartocciato / il verme scava fra i tendini le vene / si nutre del tuo sangue / della saliva si abbevera // Innestato allo scheletro quel pianto / scordato / ramifica fra i tendini, le vene / raggelando il tuo gesto il tuo calore» (p. 108); Messaggio, «All’alba sono entrati / in due dalle imposte socchiuse / hanno posato sul tavolo una pietra / una scatola chiusa un pezzo di pane // Oggetti d’ombra le tue occhiaie / brinate …» (Ancestrale, cit., pp. 109-10).