Francesco Tomada per Luigi Cannillo
![]() Galleria del vento
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autori: | Luigi Cannillo |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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su perigeion
Luigi Cannillo, Galleria del vento
di Francesco Tomada
Non mi sono impegnato a contare le parole, lo confesso, per cui se dico che “esilio” è quella che si ripete più spesso il Galleria del vento (La Vita Felice, 2014), l’ultima raccolta di Luigi Cannillo, può darsi che non sia proprio vero. Però ugualmente “esilio” mi sembra la parola più importante per il modo e per i momenti in cui ritorna, e soprattutto perché in tutto il libro si respira un’atmosfera di allontanamento volontario o involontario, di distanza da ciò che si vorrebbe avere, o di cui avremmo ancora bisogno, ma ancora di più emerge il senso di vuoto (“misuriamo la potenza del vuoto” recita il primo testo della raccolta), vuoto che è morte ma che più insistentemente è parte della vita stessa.
Il primo vuoto è quello della perdita degli affetti più cari, per Cannillo la perdita della madre, ed è quello più direttamente doloroso. Se “la terra compie il suo dovere / restituire al vuoto” come “una forza contraria alla vita”, ecco che a noi, noi che restiamo, viene assegnato come testimonianza il ricordo, la presenza-assenza di qualcuno che c’è stato e che soprattutto abbiamo amato e che permane nelle cose, nell’ordine della casa dove “gli oggetti /anticipano il lutto” e lo perpetuano nella lettura di chi ha amato. E’ questa – L’ordine della madre, in apertura – la sezione più direttamente dolorosa di Galleria del vento, un dolore solitario, “invisibile a ogni passante”, è la durezza della “parola madre che flagella”. E’ però anche un dolore che sembra trasfigurarsi nel tempo, come in fondo accade nella realtà quando dal momento acuto della perdita si scivola in quello inevitabile della mancanza, e si afferma inesorabile una solitudine più profonda di prima dove il tempo non è medicina che ripara, piuttosto “il tempo adesso è tutto il nostro peso”.
Se nella prima sezione l’esilio di Cannillo è assolutamente privato, già nella seconda, 12 segni, la prospettiva si allarga in un percorso che non a caso attraversa tutto l’anno e dunque tutti gli anni nel loro ripetersi e riproporsi. La perdita non è soltanto quella di una singola persona, per quanto cara possa essere; la perdita è un processo di separazione da tutte le persone, uno scavo – voluto o meno, comunque inevitabile – in una solitudine che diventa condizione esistenziale: “Attorno le città risplendono / danzanti, ma per noi è notte / troppo lunga per il sonno” scrive Cannillo, e questo distacco appare quasi necessario, come prendere una distanza dalle cose per poterle sopportare. Non è però una condizione di ascesi, piuttosto un conflitto come brace all’interno di se stessi, perché l’autore sa che esiste “un dovuto che ci spetta”, e che c’è un universo di altri io con cui confrontarsi: “So che ci sei, sento / la tua ombra”. Se dunque “l’impulso è distinguere / respingere il simile / fino a rinnegare i fratelli” questo auto-esilio (qui sì, non imposto dall’esterno ma dal proprio animo) non si traduce in autosufficienza, lascia una tensione latente, una “marea / che sutura e riapre la ferita” e a volte fa quasi chiedere conforto quando dice “cercami nel profilo alla parete / nel vuoto scavato dall’aria”. Per poterne scrivere Luigi Cannillo deve alzare la testa, respirare e fare un passo indietro anche da se stesso, cercare una parola che venga dall’aria e dall’ombra che è figlia di quel vuoto, “misurare la lingua / affilare anche l’arma del silenzio”.
La poesia stessa è una forma di “esilio sulla pagina”, rastremata traccia di ciò che “brilla sul polso di chi scrive”. Dentro c’è “una creatura roteante teste / in ogni direzione”, all’esterno invece ne rimane una traccia, Il rovescio del corpo (che è titolo della sezione successiva), e quel lasciarne intravvedere i segni e cercarli negli altri che si esplica soprattutto negli occhi, “che sono ponte fra le creature / il nostro sguardo che si cerca”. E’ un bisogno di contatto (“non lasciarmi”, “proteggi il viaggio nelle tenebre”) ma anche il contatto ha il sapore di un conforto transitorio, magari benefico ma non abbastanza da diventare definitivo. “L’altro è soltanto un’ombra in transito / un annuncio senza seguito”, si resta come a metà del guado, divisi e tratti da entrambe le parti, quando “il laccio si ritorce in cappio: / spinge spietato verso la tua assenza / e mozza il fiato all’appuntamento”. L’esilio, che è mettere una distanza fra sé e ciò che si desidera, sembra dunque una sorta di legittima difesa, che è contemporaneamente salvezza momentanea e dannazione.
L’ultima sezione di Galleria del vento, Berliner, vede le sue otto poesie collocate geograficamente in un luogo fisico, cioè in diversi scorci della capitale tedesca. Si tratta di uno scarto più apparente che reale rispetto alle parti precedenti, perché viene da pensare che Berlino, città con “il cuore / disperso in mille centri”, sia un ottimo pretesto ma Cannillo avrebbe potuto scrivere di qualsiasi altra città, dove sono “sempre gli stessi zingari / [che] entrano nel vagone a cantare / besame, besame mucho”. “Nel nome della madre / completeremo il cerchio dell’esilio” recita una poesia della seconda sezione, “l’esilio è seminato ovunque” recita un altro testo nell’ultima: ciò che ci segue sempre e ovunque è ciò che ci portiamo dentro e che ci fa sentire a casa in una città straniera e probabilmente stranieri fra le nostre mura. In questo attrito, in questa crepa si insinua la poesia di Galleria del vento, questo è lo spazio che attraversa e dichiara, spazio dove ciascuno è parte di una “moltitudine [che] si raduna e disperde”.
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Dalla sezione “BERLINER”
Oh tu Berlino, pietra colorata, bestia…
Alfred Lichtenstein
Quando le mura crolleranno
le macerie parleranno ancora
del grande Occidente.
Gottfried Benn
Se il respiro di una stella pronunciasse il nome perduto
dovrebbe essere vicino, il mare.
Johannes Hübner
Berlin Brandenburg
Per l’errore e la pena
perché il tempo che flagella
impone una rinascita
La ritroviamo come la grotta
dove si cura la ferita
ma le pietre disperse sul cammino
si scompongono in nuovo paesaggio
Come le nostre, le sue pieghe
brillano ogni mattino di rugiada
Isola come noi, il cuore
disperso in mille centri
aggrappata a un suolo d’acqua
e argilla, solida nella gravità
Perché divisi sotto uno stesso cielo
la carne strappata dall’abbraccio
ma ogni volta incantati
dal salto nella gioia
Forse per questo ci sentiamo a casa
diventiamo città
***
Gendarmenmarkt
Anche la lontananza
ha coltivato semi
lo sciame del tempo ci raccoglie
nella stessa tazza
Italiani, a confronto col nord
ognuno è una folla di gesti
e oltre ogni costume
spingiamo nel teatro il corpo
Così la coppia esultante
che vedono corrersi incontro
diventa doppia nell’abbraccio:
i due come si erano lasciati
e le presenze cariche di tempo
La memoria fa un nido provvisorio
al tavolo dell’Einstein Café
trasforma mano a mano i lineamenti
seziona gli anni, assolve le passioni
E tesse un nuovo filo
Poi girato l’angolo
a una sola stazione di distanza
non saremo comunque gli stessi
già nella posa di voltarci a salutare
***
Botanischer Garten
Dalla serra trapiantati altrove
nel noi che giuriamo futuro
spalancavi lo sguardo al mio
Qui fioriscono spini e ninfee
mentre dietro le colonne delle querce
si ricama il labirinto verde
Tutto convive grazie all’uomo,
si scolpisce anche l’erba, dicevi
Ritorneremo, dopo ogni attesa
i cancelli apriranno alla festa
Restava nel sonno il movimento
del petto che aderisce ancora
alla schiena in unico respiro,
il dolore dichiarato alla fine
nella camera rimasta libera
Ricercare nella foresta vuota
gli stessi passi, lo sguardo spalancato
Anziché fiorire i sentimenti
passeggiare da solo fra le aiuole
***
U-Bahnlinie 1
Sempre gli stessi zingari
entrano nel vagone a cantare
besame, besame mucho
in ogni città. Ovunque
gli sguardi si sollevano di lato
e ricordano baci mai dati
La musica dal sottosuolo vola
oltre le rotaie e le fermate
como si fuera esta noche la ultima vez
Per questo si accostano
le presenze, lo sguardo clandestino
trova il compagno in uno sconosciuto
e stringe alleanza
finché si aprano le porte e le bocche
Il bacio si dovrà staccare ma lo sguardo
anche distolto fissa per sempre
Benché gli zingari cambino treno
la fisarmonica insiste
porta a destinazione
***
Ku’damm
Cosa rimane di tutto il cammino
e imparare a memoria le canzoni
Sono il freddo e i cristalli, i fuochi
di capodanno a contare i passi
Si apre in vapore una camera
di musica, fumano le teiere
un fiocco di lingua sconosciuta
Ogni volta una spina puntata
un nuovo dolore a guaire
Nelle notti d’agosto le foglie
dei platani spargono già la fine
nella ruota del vento
la chiave più fredda richiude
una a una le porte della città
Quando passeggio canto e ingoio
con la strada ogni viaggio anteriore,
da fuori pare che improvvisa
la prima luce possa accendersi
a un incrocio e chiamare
Che la sagoma disarmata nel buio
cambi forma, sia diventata umano
***
Bahnhof Zoo
C’è per tutti una seconda patria
dopo la curva aspetta
con un raggio spinto nella sera
Come la prima parla una lingua
estranea che ci invita
ma alla parola successiva assedia
Accoglie una nostra impronta
e un tempo mentre si distacca
Anche qui immagino e cammino
i viali si inseguono
in circolo, infiniti
e le finestre soffiano
nella notte una luce estranea
Anche da qui si scrive
con il coraggio della separazione
Diversi sono il viaggio, e l’attesa
il passo sospeso sulla nuova soglia
ma l’esilio è seminato ovunque
***