Intervista a Renzo Favaron a cura di Marco Bolla
![]() Ieri cofà ancuò (Nostos par passadoman)
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autori: | Renzo Favaron |
formato: | Libro |
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INTERVISTA : RENZO FAVARON, POETA E SCRITTORE A CURA DI MARCO BOLLA
Renzo Favaron, nato a Cavarzere (Ve) nel 1958 e laureato in Psicologia, vive e lavora a San Bonifacio (Vr). Dopo un’iniziale plaquette in lingua uscita nel 1989, intitolata “Voci d’interludio”, nel 1991 ha pubblicato “Presenze e conparse”, una raccolta di poesie in dialetto veneto. Nel 2001 è uscito il romanzo breve “Dai molti vuoti”. Nel 2002 ha pubblicato alcune minuscole plaquette presso le edizioni Pulcino-Elefante. Nel 2003 ha pubblicato “Testamento”, un’altra raccolta di poesie in dialetto; nel 2006 “Di un tramonto a occidente” e nel 2007 “Al limite del paese fertile”, che raccoglie vent’anni di poesia in lingua. Nel 2005 è uscito il ramanzo breve “La spalla” e nel 2009 “In cualche preghiera”. Nel 2011 ha pubblicato “Un de trin tri de un”, che raccoglie vent’anni di poesia in dialetto; ed infine nel 2012 “Ieri cofà ancuò (Nostos par passadoman)”.
Parliamo dell’ultima raccolta di poesie. Una cosa che mi ha incuriosito è il sottotitolo: Nostos par passadoman. “Nostos” significa ritorno a casa…
“Nostos” è una parola greca. Il più famoso è quello di Ulisse: dopo un lungo peregrinare ritorna a casa. Il problema del ritorno… alla fine non si ritorna mai, non ci si distacca mai dalla terra originaria. Il ritorno è idealizzato, è un abbraccio a qualcosa da cui non ci si è mai allontanati spiritualmente, ma solo fisicamente. Nella tradizione storico-culturale è un tema legato a delle vicende umane che porta al distacco, ma la persona non si distacca mai quando ci sono dei forti legami, come può essere per Ulisse.
L’idea che mi sono fatto leggendo il sottotitolo è che hai affrontato come una guerra interiore, un dissidio prima di ritornare a casa.
Il problema è un po’ diverso. Il tema è legato ad una trasformazione antropologica, storica, geografica del nostro Veneto. C’è questo cambiamento ma anche un massacro che è stato compiuto nel territorio, per cui l’idea del ritorno ora è quasi impraticabile se la metto a confronto con i tempi della mia infanzia. Il tema del ritorno è visto alla luce di questa trasformazione avvenuta nel tempo delle persone e del nostro territorio; è vissuto come un senso di non appartenenza: non è più l’Itaca agognata, desiderata e identica a se stessa; qua torniamo e non c’è più niente uguale a prima. Ad esempio, la poesia La cometa recupera il tema del ritorno: Halley taglierà ancora in due lo stesso cielo, indipendetemente dalla nostra presenza sulla terra.
Quindi, è come se ti fossi staccato idealmente per poi ritornare nel Veneto di oggi?
Il mio è un ritorno al presente e non un ritorno al passato. È quasi un risvegliarsi e non riconoscersi più in questo tempo presente. Ma non in maniera pasoliniana, per esempio rimpiangendo la mancanza delle lucciole. Non sono solo le lucciole che non ci sono più, tante altre cose sono cambiate,
I primi versi della penultima poesia, Ieri cofà ancuò, recitano: “Forse gera destin che restasse / on piocioso e che no’ fusse da mi / sbassare la testa a la caciòla / d’i ricordi.” E poi: “Resto on piocioso cofà se gnente / me fusse pì diffisie da mandar zò / de chea spussa che me porto senpre drìo.” Quel Veneto del passato fatto di miseria sembra che viva ancora dentro di te.
È un ritorno al presente, ma avendo una chiara percezione di cosa siamo stati, di cosa siamo in questo momento, e di cosa abbiamo fatto. C’è stata la perdita di molti aspetti legati a delle presenze per me importanti come i pioppi, i salici, i gelsi che adesso non si trovano quasi più nel nostro territorio. Abbiamo perso dei riferimenti del nostro paesaggio fondamentali, che ci facevano sentire parte di esso. Ci siamo smarriti per strada anche noi, è come se fossimo stati strappati da questo territorio. Il nostro paesaggio è diventato irriconoscibile, e noi insieme ad esso.
Traspare anche un senso di solitudine in questo ritorno. Nella poesia Da chì scrivi: “Anca dopo ‘ver girà da on Polo a l’altro, / parlà co’ arabi e australiani, / messo al mondo fioi / e fato ùn, dó… diese misteroi, / indrìo se torna senpre soli.”
Ciò a cui mi riferisco è la mia infanzia. Purtroppo quel tempo è legato ad un paesaggio, ad un mondo che non si riesce più a ritrovare: è morto. E insieme a quel mondo è morto anche quel bambino: per questo ritorno solo. L’immagine finale della poesia è abbastanza significativa; è la scena di un funerale. È un funerale individuale, personale, però è anche un funerale di un mondo, di fatti e di persone.
“No’ tornar cofà on treno vodo, / cofà se a ùn a ùn, on fià a la òlta / i fusse ‘nda zò tuti / e in ogni stassion / no’ fusse saio gnessun.” Anche in questa poesia, intitolata So ‘na cualsiasi stassion, c’è l’immagine di un treno vuoto, della solitudine.
Alla fine c’è anche un verso dove parlo di un cuore “pandòlo e vivo”, cioè goffo e vivo. È questo che sopravvive alla fine di tutto, cioè un cuore molto semplice ma allo stesso tempo vivo; un cuore che si porta dietro tutta questo discorso legato al tempo. Un tempo visto in una prospettiva proiettata in un futuro lontanissimo. La poesia La cometa richiama un tempo in cui noi saremo già sotterrati da tempo. Dovremo sempre vedere in questa prospettiva pensando a quelli che vedranno la cometa: cosa lasceremo del nostro passaggio? avremo rispettato il territorio? avremo garantito un futuro a quelli che verranno dopo? Mi pare che adesso tutto questo sia molto difficile.
La poesia La cometa è quella che trovo più bella…
È un testo vecchissimo che ho recuperato perché è legato al ritorno. La cometa passerà sempre, passerà ancora. Questa luce che comunque rimane viva ma che nell’uomo veneto non esiste più… Ormai nessuno si rende conto di come sia cambiatala nostra terra e insieme ad essa il suo “abitante”, cioè l’uomo e la donna veneti.
Nella presentazione, Paola Tonussi parla del “senso dell’inutilità del tutto, la consapevolezza di non dire che «parole fruae» (L’ultima tovagia)”.
Questa è la prima poesia che ho scritto, è molto vecchia. Qui vi è non solo una figura centrale della mia vita, ma anche una chiave poetica: mia nonna. Lei è proprio l’incarnazione del soggetto veneto, in lei vi è tutta la sua espressione fisica, psichica e spirituale.
Quindi Apollonia era sua nonna?
Sì.
Io pensavo che il nome Apollonia richiamasse la moglie di Ulisse…
Sì, c’è questa immagine ma è in una forma molto più semplice, più vicina a noi e fuori dalla tradizione culturale alta. Nel nostro piccolo mondo contadino eravamo legati a questa dimensione culturale altissima che ci riporta ad Omero. Noi abbiamo origine dal mondo classico. La parola “nostos” parte da una dimensione domestica, ma ha il suo precedente nell’Odissea: tra Apollonia e Penelope c'è un legame antichissimo, quello tra la dimensione domestica di una donna immersa nella cultura veneta e quello di una donna che è il simbolo della resistenza e della fedeltà, come ricorre spesso nella tragedia greca a proposito di alcuni personaggi femminili, tipo Antigone. C’è un senso inconsolabile di tristezza in me quando penso che abbiamo perso questa dimensione legata alle piccole cose. Chi è che ricama ancora? Mia nonna richiama tutto questo.
Ci sono alcuni versi che richiamano la negatività. Ad es. nella poesia El pesse rosso. Ma ci sono anche immagini positive, “ripetuti e inaspettati sprazzi di luce” come ha scritto Tonussi nella presentazione. Ad es. nella poesia Istà: “E squasi no’ se crede / che ghe sia ‘na batisuòsola / che dal muro nevoso / la coa ‘na pì che umile pastura, / cussì che pì se fa scuro / pì xe vivo el ciaro.”
El pesse rosso l’ho scritta in un momento particolare. La “batisuòsola”, cioè la lucciola, sai dove l’ho vista? La puoi trovare in luglio conficcata nei muri a secco quando vai in Lessinia; il fatto di vedere questa luce che esce fuori dalle crepe dei muri mi ha molto colpito. Il problema è che dovremmo conservare questo paesaggio per dare modo alla lucciola di avere i muri dove potersi nascondere. Così potrà continuare ad uscire per darci questa luce. Noi abbiamo smarrito questo senso dell’esistenza che è quello che dà significato alla nostra vita. Abbiamo perso la cognizione di essere anche noi elementi della natura, ci siamo emancipati per perdere la vicinanza con questo mondo.
IERI COFÀ ANCUÒ (NOSTOS PAR PASSADOMAN) DI RENZO FAVARON 88 PAGINE + CD AUDIO (A CURA DI LUCA DONINI E RENZO FAVARON) ANNO 2012 — 13 EURO — LA VITA FELICE
L'OSSERVATORE N 34 – Giornale letterario indipendente