L. Vasile per S. Martino
![]() La metamorfosi del buio
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autori: | Salvatore Martino |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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Riflessioni di chi ha ascoltato e letto
“Le cose nascondono una intenzione e attendono un significato” (Edmund Husserl).
Questo è stato il pensiero che mi ha pervaso quando, finito di leggere, ho chiuso le pagine di La metamorfosi del buio di Salvatore Martino. Pronta e con l’impulso di riaprirlo di nuovo, di ricominciare dall’inizio. Chiudere per aprire, per disvelare ancora fra i fogli.
Ho cominciato a rigirare fra le mani il contenitore, l’avanti e il dietro, a toccare con i polpastrelli l’immagine della copertina: geografia del bianco foglio solcato dal disegno dei neri caratteri, con i quali l’autore promette un nuovo viaggio nel mondo lirico dichiarando, così, di soccombere alla tirannia della poesia che credevo di averla confinata/in una stanza priva di finestre/senza il sospetto/di una impossibile sortita.
Dal tatto sono passata alla vista. In quarta di copertina uno straordinario, inquietante quadro Autoritratto di Johannes Gumpp. La data del 1646 dimostra, a conclusione del testo, che gli interrogativi dell’uomo non sono cambiati attraverso i secoli, a dispetto della scienza e della tecnica che sembrerebbero travolgerci con la loro accelerazione ma che mai sono riuscite, e riusciranno, a sondare i misteri dell’anima, sugli inizi e la fine/degli uomini e del cosmo.
Circoscritto in una bolla di buio e nella sua circolarità l’Uomo, l’uno che diventa trino, dipingendo se stesso (come lui si vede) e specchiandosi (come la realtà e gli altri lo vedono). Una ricerca dell’Io che si sposta continuamente, e non senza angoscia, fra il dentro e il fuori per incontrare l’Altro. L’Altro sé in continuo mutamento e rinnovamento, e l’Altro da sé che può essere non solo il fratello, l’amico, anche il diverso, il contrario, perfino il nemico, ma colui del quale abbiamo comunque bisogno per completarci e superare le solitudini dei corpi e degli animi.
Che fossero i sensi, e le emozioni da essi suscitati, ad implicare la lettura di questa silloge, me ne ero accorta partecipando, pochi giorni fa, alla sua presentazione in una libreria romana. Un piccolo soppalco con soffitto basso, una quarantina di seggiole l’una accanto all’altra, persone sedute anche per terra sui gradini di accesso, posti in piedi. Calore, un’atmosfera intima, piena di concentrate energie della mente e del cuore.
La voce bella profonda suadente dell’autore, che recitava da esperto attore, metteva in coinvolgente movimento l’udito sul metronomo della sistole e della diastole.
L’ascolto era impreziosito dalla musicalità e dal ritmo dei versi.
Entrava a far parte della scena interiore anche lo stimolo all’olfatto, quando dagli anfratti della memoria giungeva intatto l’abbandono dentro la natura… la quercia a picco sopra la mia casa/la bianca solitudine del mare/quell’albero conosciuto in Amazzonia/la tolda spaventosa di una nave…
L’odore di salmastro, di verde, di fiori venivano alla luce partoriti dalle parole.
E ancora il gusto, sapore dolce-amaro di melanconia, a volte di depressione ed ansia tuttavia non prive di speranza, saliva allora alla bocca.
Sì, mi sono detta, questa è poesia. Sfiora tocca penetra.
Non mi sono quindi meravigliata quando è stato fatto il nome di Giorgio Caproni - che ammiro, oserei dire adoro -, e quando Salvatore Martino ha raccontato di averlo incontrato. Le assonanze della loro poetica sono chiare. Caproni aveva studiato violino e composizione al Conservatorio, interesse che ha regalato ai suoi versi una singolare perizia metrico-stilistica accompagnata dall’immediatezza e chiarezza dei sentimenti.
Partire da un particolare della realtà, dalla concretezza delle cose semplici per cercare l’universale, è altra somiglianza fra i due poeti. Da un basso, generalmente individuabile, volare alto, fa sentire vicino chi legge e chi scrive, impagabile unione in un mondo separato dove impera l’andare contro e non verso per con. Allontana, invece, la superbia di chi si pone al vertice di una supposta verità, e da lì discetta.
Sì, mi sono ri-conosciuta e, come un piccolo miracolo, mi sono ri-trovata… accanto.
I vari argomenti, veramente tanti, delle liriche, a mio avviso, si riassumono e conducono a un unico tema principale, quello del viaggio dell’uomo e in questo caso del poeta: la scrittura automatica come abbandono profondo. Che non sia proprio questa resa incondizionata a stabilire il contatto con la verità? Ma molte le contraddizioni che lo stesso autore denuncia, compagna l’intelligente umiltà. L’animo del poeta alle prese con una realtà sfuggente, impossibile da fissare con il linguaggio che si rivela come strumento insufficiente e ingannevole.
Ma è incontrovertibile che il dubbio si trasformi in vero cammino di ricerca.
La curiosità del viaggio alla scoperta del mondo, dei diversi idiomi che inserisce nelle liriche come punti di vista e suoni differenti, di nuovi paesaggi, il viaggio per una conoscenza degli altri non più stranieri.
Il coraggio del viaggio attraverso la malattia e il dolore fisico.
Il viaggio per una consapevolezza di se stessi. L’immersione nella sofferenza interiore, sfidandola. Viaggio nel proprio abisso, dove non si percepisce il buio ma la luce della conoscenza.
La gioia del viaggio nell’unione dei corpi, nel linguaggio della fisicità. Nell’eros l’annullamento del proprio perimetro, della finitezza del sé nell’altro, per divenire Uno e perdersi. Un attimo - perché poi tutto è destinato a fuggire, dileguarsi, sciogliersi fra le dita che non riescono a trattenere, tutto per noi è caduco - .
Un apice nel quale si tocca il mistero della morte-vita.
Interessante e motivo di profonda riflessione è stata la risposta dell’autore alla domanda venuta da una signora dell’attento pubblico:
- Dobbiamo pensare che ci sia relazione, che il buio conduca all’abisso? -.
- No, dice il poeta, il buio è orizzontale, l’abisso è verticale -.
Il buio dell’avvenire, del futuro, si presenta sull’asse orizzontale delle ascisse e si coniuga con la luce, sempre verticale sull’asse delle ordinate della discesa e dell’ascesa, del tormento e della speranza, dalla caverna dell’Io dove si accende l’intelletto al chiarore dell’infinito cielo.
L’essere umano punto nel piano cartesiano, che si muove fra buio e luce; esplosione nello spazio, in terza dimensione, se si proietta nel piano laterale.
Ruotando il quadro la prospettiva cambia, si modificano i rapporti.
E’ forse questa, mi chiedo, la metamorfosi del buio?
Luciana Vasile
Roma, 23 aprile 2013