M. Raccanelli su Frisa
![]() Ritorno alla spiaggia
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autori: | Lucetta Frisa |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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Marina Racanelli, Nota di lettura a Ritorno alla spiaggia.
In “VDBD”, 10/9/2009
La letteratura e la vita, la malattia e la cura. Essere sospesi tra queste due entità, senza sapere mai, per fortuna, quale sia l’una e quale l’altra: se sia più folle scrivere o vivere, sognare o dare fiato al respiro dirigendo il passo verso qualche luogo. La poesia di Ritorno alla spiaggia di Lucetta Frisa è tutto questo: un caleidoscopio di rimandi, intrecciati e avviluppati, tra citazioni, osservazioni del mondo e dell’animo umano, escursioni nei meandri bui e nei sentieri assolati della mente. Le pagine di questo libro sono solcate da un verso magmatico, eppure nitido, un’esondazione di sensazioni racchiuse con metodo, con la pazienza e l’energia della passione, in torrenti paralleli di fuoco, acqua e terra.
La spiaggia a cui allude il titolo, è di certo, come rileva opportunamente Gabriela Fantato nella prefazione, luogo immaginario, ideale. Probabilmente è la coscienza, la memoria, o qualche altra dimensione incerta e imprescindibile. L’autrice sembra muoversi per ondate concentriche, o, meglio, seguendo gli impulsi opposti dell’attrazione e della repulsione, la riflessione e l’oblio. È come se ad ogni pensiero cupo si opponesse la lievità, e ad ogni disciplinata marcia verso la logica del rientro tra le mura della cognizione del dolore si sovrapponesse, con uguale forza, la voglia di fuga. Tra questi fertili paradossi si muovono i versi, a volte secchi, brevi come sospiri, altre volte lunghi, come pensieri che abbracciano ipotesi di orizzonti, o come risa che scacciano, con la forza della follia vitale, la follia tetra della morte.
Il libro è una lunga “Passeggiata”, per citare il titolo della sezione conclusiva. E nel viaggio Lucetta Frisa incontra ed evoca tutto ciò che le sta a cuore, ciò che occupa lo spazio della ragione e delle emozioni: la dimensione familiare, innanzitutto, la necessità delle radici, il filo, l’uncinetto e le mani della madre, ma anche il mare, mistero di prospettive di cui non si percepisce la fine e sguardi estranei che scombussolano rotte e confini. Non resta altro, allora, sembra indicare l’autrice, che mettersi in cammino, portando con sé l’ironia salvifica dell’ossimoro, quello che logora dentro ma consente di schivare i colpi e sfuggire alla sbarre di una logica sociale che non di rado è la forma più aspra di pazzia. Si parte, quindi, portando con sé la consistenza di ciò che sa essere saldo, gli affetti autentici, e il bagaglio incorporeo ma fondamentale degli affetti, ossigeno prezioso: le parole degli autori più amati, conservate nella memoria, attraversate giorno per giorno fino a renderle pietra e sentiero, parte integrante della strada. Autori di varie epoche e diversi idiomi: Wallace Stevens, Bernard Noël, Louise Glück, Josep Maria Lopez-Picò, tra gli altri. Versi proposti nelle lingue originali o tradotti, resi in ogni caso propri, interiorizzati, rubando, come suggeriva Eliot, non prendendo a prestito. Perché un tale furto è un atto di paradossale ma autentica condivisione e generosità, necessità di simbiosi.
Questo viaggio con il bagaglio delle parole conduce lontano dal dolore e dalla morte e rende la speranza della gioia un luogo quasi concreto, una spiaggia su cui si sogna di poter tornare. Un luogo dove non arrivano voci perché “il battito marino/ impone il suo silenzio”. Ma anche un luogo dove l’autrice può rivelare “Sento in me molte voci/ un brusio allacciato al vuoto”.
Il dono, in quel brusio vasto e complesso, è la consapevolezza della sorpresa: la meraviglia dell’individuare, dentro di sé, la vita, lieve e inafferrabile, ancora viva, presente, da qualche parte, nel profondo, capace di stupire se stessa: “Una bambina mi porge una palla/ scappa via./ Resto con quel dono tra le mani./ Oh se così fosse tutto/ in questo orizzonte chiaro come la visione/ prima e dopo la parola”. Il tempo non è più lo stesso, come il verso, l’atto dello scrivere, il pensare la forma della vita sapendo che non possiede forma se non nel fluire, allentandosi e ritornando ad un punto di partenza che è l’uomo, l’immagine che l’esistenza crea di sé, ingannevole e autentica, astratta e concreta. Rimane, alla fine, anche in questo libro, il succo prezioso del tempo, il veleno e la cura, la realtà e la poesia: l’attimo in cui si percepisce, o si sogna di percepire, una traiettoria, i segmenti che si uniscono e formano una retta, una cammino percorribile: “Anche settembre è finito/ e lo stabilimento chiude./ Ma il mare lo lascia aperto/ l’Ignazio che ripone le sdraio/ e non ascolta nessuno/ si è infilato un maglione/ guardato l’orologio/ spento, tranquillo, il sigaro”.