PIERO MARELLI. Il miracolo dei fatti comuni. Articolo di Luigi Cannillo
![]() Apocalypsis cum figuris
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autori: | Piero Marelli |
formato: | Libro |
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PIERO MARELLI. Il miracolo dei fatti comuni

Non è facile seguire le tracce di Piero Marelli. già quando si cerca di mettersi in contatto con lui. L’unico tramite è la linea telefonica di casa, dato che il poeta non usa né cellulare né mail. E a maggior ragione gli sono estranei i supporti digitali, i social e le messaggerie in rete. Per quanto riguarda il suo profilo di autore risulta comunque impegnativo tracciarne un ritratto sintetico per il vasto arco temporale in cui si collocano le sue opere e l’ampiezza e la diversificazione delle esperienze di scrittura – e di lettura. La scelta dei testi, compiuta con la partecipazione del poeta e attingendo anche a quanto propone la rete, offre in questa occasione uno spettro ampio di testualità, dalla poesia in italiano a quella in dialetto brianzolo, da unità brevi ad altre di tipo poematico, da un tono alto a uno più colloquiale, fino all’omaggio a diversi grandi autori. E a tutto questo si deve aggiungere comunque l’attività di Marelli come critico, traduttore e per il teatro, alla quale si riferiscono anche alcune informazioni tratte dalla sua nota bio-bibliografica.
I caratteri comuni alle diverse forme in cui si esprime questa lunga esperienza poetica si possono individuare in alcuni interventi di Marelli stesso all’interno di interviste rilasciate in rete, come quella alla Casa della Poesia di Monza, https://www.lacasadellapoesiadimonza.it/piero-marelli-il-presente-e-fatto-di-passato-e-di-sogni-futuribili/: “Ci si affida alla poesia proprio per mettere in discussione le categorie acquisite passivamente, mettere in crisi le nostre certezze. La poesia rende liberi […] Perché il poeta si pone le domande più impegnative e sa rendere intrigante anche la domanda più banale: il poeta è colui che non si accontenta della realtà apparente, e scava; si chiede che senso ha il vivere e il morire, e perfino che senso ha la stessa felicità!”
È proprio all’interno di questo impegno, di questa pratica di libertà che possiamo leggere i versi di Marelli e rintracciare alcune costanti: i luoghi per esempio, non tanto come fotografia di elementi convenzionali ma come appartenenza e rivelazione, segno dell’origine e, insieme, presenza metafisica. E il Tempo, sottratto alla realtà della cronaca spicciola e proiettato come storia dell’umanità. L’insieme di quotidiano e allegorico è essenziale per la rappresentazione dell’esistente e delle tensioni che muovono gli esseri umani: la custodia del creato, il desiderio e la nostalgia, la percezione del destino, il compito stesso di raccontare in versi. Nella scrittura di Marelli è rilevante il respiro ampio sia nei componimenti che si sviluppano in una modalità tipicamente poematica che nei testi più brevi. La sintassi è ricca, le interiezioni e le apparenti divagazioni slanciano le frasi senza obblighi di regolarità metrica ma con un ritmo naturale, e talvolta anche discorsivo, nel corso del quale affiorano radure più enigmatiche.
In conclusione della sua prefazione alla raccolta Apocalypsis cum Figuris Corrado Bagnoli scrive: “La poesia di Marelli è una poesia insieme ambiziosa e umile proprio in questo suo estremo tentativo di essere storia dell’essere presente dentro la realtà; in questa sua offerta di disponibilità a lasciarsi interrogare da ciò che c’è dentro e fuori di noi; in questo suo tornare a fare i conti con il destino individuale e collettivo, nella consapevolezza che nella parola poetica è in gioco il senso di tutta la vita.” È la parola poetica che così contribuisce a percepire e nominare “il miracolo dei fatti comuni” Tra i diversi materiali qui proposti la dichiarazione più esplicita a riguardo si può ritrovare nella prima parte di uno dei testi in dialetto, da N’ gir a pè in riferimento all’uso della parole e al loro significato da riconoscere o “sconoscere” mentre nella seconda parte il discorso viene riportato all’origine, cioè alla comprensione del mondo e alla condivisione delle domande comuni: “[…] Fôrzi l’è ul mund ch’el g’à/ ‘na sua rasùm dificil de cumprend o ch’el se metü/ a girà a gamp all’ari…Te pö scumètt/ quel che te vöret, ma duman sarèm amò chì/ a vardàss ‘n di öcc, a indüjnà quel che pö sücéd,/ quanti ropp înn restâ de dumandàgh// Forse è il mondo che ha / una sua ragione difficile da comprendere o che si è messo / a girare a gambe per aria… Puoi scommettere / quello che vuoi, ma domani saremo ancora qui / a guardarci negli occhi, a indovinare quello che può succedere, / quante cose sono restate da domandargli.
da La pietra serena, La Vita Felice, Milano, 2001
quando camminavi per lunghe ore
i campi di mais, i laghi che i forestieri
non conoscono per nome, uscirono dai libri
aprendo la loro leggenda —
non ti accompagno per impedirti di cadere
ma solo perché i tuoi passi decidono anche i miei —
appena i mesi ricominceranno ad avere ragione
incontreremo lo stupore intraducibile della gente
che comincia subito di prima mattina
***
È qui vicino il luogo che avevi in nome
in parole fortunate – parla con un fiume una strada
una fotografia, se questa è la sua possibilità
di rivelarsi, anche in minima parte
nel cesto di pane e ricami
al centro della tavola – non so
se in questa casa volevi abitare
di un paese che i morti aveva dimenticato –
se le antiche, ma proprio per questo non solo
rimpiante parole, aspettano ancora
di essere vendicate – se il discreto
degli occhi dell’insonnia non ha saputo
rivelare il disegno del tappeto ormai in debito
di colori, se i figli delle favole
hanno diviso le loro voci.
da “Apocalypsis cum Figuris”, La Vita Felice, 2015
Primavera in disparte, con quello che non può dire,
per non dare a questa storia la possibilità di sorridere,
quando lo sforzo per alzarsi dalla sedia
è riconosciuto dalla schiena, pensando:
tutte le città hanno e avranno un nome, con i loro cieli sopra
e per un cenno fatto da lontano, a cambiare colore,
e le loro strade, i loro alberi sempre presenti
e tutto quello che il cuore non riesce
a mettere da parte, si fingeranno pronte per un futuro
come di chi attende, a luce accesa, la fine della notte.
Tutti gli anni ci contengono, un po’ turisti
di un secolo assente quanto noi,
abitanti di musei con i loro tradimenti
che sono una parte della verità,
ruotanti nelle sale dove qualcuno, in attesa di una rivelazione,
cerca l’insulto messo a tacere da fenomenali bravure.
I giorni (non più grandi di noi), camminano
con il loro battere sincopato, nel dormiveglia
il piede di un gentiluomo spagnolo ha toccato
il suolo d’Europa pisciando controvento;
poi lì ha fatto tutto, come altri di noi, comunque,
che hanno rovesciato le loro fedi (un’implacabile fede
che ha toccato il mondo e ucciso), la furia
accompagnata dallo sbattere delle onde sulle spiagge di Spagna,
la forza del mare è la forza di migliaia di dita
che reclamano la storia come sabbia,
per il mettersi di una sintassi
rimescolata nello scenario di un abbandono.
Quale maestria e quale incertezza è imposta
(lasciate almeno che queste parole si arrendano
a questo racconto e dicano qualcosa in più di se stesse),
da un visibile desiderio che ogni notte ha deciso
di chiamare nostalgia, perché questo ricordare è uno
degli anelli della catena mai disponibile
a togliersi d’intorno? Nessuna intima pretesa
è migliore di una pioggia d’estate.
Nemmeno rispondere alla confisca della dedizione,
alla, fango e poi polvere, promessa guerriera.
Cittadini di un’infedele coniugazione,
il vento faceva solo solletico
alle tende del mercato (questo bisogna ogni tanto ripeterlo),
il sole accompagnava i bambini a giocare nel cortile,
le ombre, al posto giusto, ricomponevano
gli amici seduti. Lontano da questo, solo gente
per il non-sentimentale inchiostro degli storici.
***
Para buscar la quemadura que mantiene despiertas las cosas.
Per cercare la bruciatura che tiene
sveglie le cose.
Federico García Lorca, Poeta en Nueva York
Quando gli orizzonti sono rovesciati nella mente
o negli orologi che non riescono a ruotare
le lancette, io, il braccio che ha attraversato la stanza,
precipitando nel fondo di una tela bianca
come pagina per questi versi, nel loro accento che non è
una testa messa da un’altra parte, lasciati andare
dove i primi gesti raccolgono i giornali
del mattino dopo, se dicono meno di quello
che avevano già detto una testa spettinata e la lucertola
impazzita sul muro a secco, temendo che anche un’offesa
diventasse un’opera d’arte. Un dolore dipinto
è come un dolore scritto,
l’uncino di un pennello o di una stilografica
decisi a cercare altrove un colore
che ha presupposto
il ritorno di un profilo non chiuso in se stesso
(le macchie d’inchiostro sono le sue figlie),
riuscendo a parlare con le occhiate
del toro che non ha avuto bisogno di altre ragioni
o del fiore senza più richieste da fare alla terra.
Tutte queste solitudini hanno visto declinare paesaggi
fotografati di schiena perché dormiranno per anni
abbracciati alle loro lune di paura.
Anche la dimenticanza, una bandiera portata via dal vento
per osservare un tramonto buttato nelle buche
da‘N gir a pè, LietoColle, 2018
Me vegn che di völt i paròj che dupéri
suméjen no ‘l tantu desiderùs de vegnì föra: cà, ma cusa
le vör dì cà? Strada, che strada? Se t’en cugnùset cent
e te ghe vöret minga ben a nisügna? Fôrzi che la puesia püsé
che cugnùs le duarìa scugnùss? Stem fresch!…Mì, di völt,
aj paròj me abanduni, j ‘e lasi parlà deperlûr
e se capisi no, vör dì che gh’è amò ‘n pô
de strada de fà. Fôrzi l’è ul mund ch’el g’à
‘na sua rasùm dificil de cumprend o ch’el se metü
a girà a gamp all’ari…Te pö scumètt
quel che te vöret, ma duman sarèm amò chì
a vardàss ‘n di öcc, a indüjnà quel che pö sücéd,
quanti ropp înn restâ de dumandàgh
Mi viene che alle volte le parole che adopero / non assomigliano al tanto desideroso di venire fuori: casa, ma cosa / vuol dire casa? Strada, che strada? Se ne conosci cento / e non ami nessuna? Forse che la poesia più / che conoscere dovrebbe sconoscere? Stiamo freschi!… Io, alle volte, / alle parole mi abbandono, le lascio parlare da sole / e se non capisco, vuol dire che c’è ancora un po’ / di strada da fare. Forse è il mondo che ha / una sua ragione difficile da comprendere o che si è messo / a girare a gambe per aria… Puoi scommettere / quello che vuoi, ma domani saremo ancora qui / a guardarci negli occhi, a indovinare quello che può succedere, / quante cose sono restate da domandargli.
Inediti
da Anna di tutte le Russie
per Anna Achmatova
Anna di tutte le Russie. Così l’aveva chiamata Marina Cvetaeva.
*
Ricordatemi con la neve. Con lei ho voluto
respirare, miracolo che cominciava quasi sempre di notte.
Aspettando la primavera perché a lei
è negata l’idea del dolore, anche se il mio andare
ha i sentieri di tutte le stagioni. Ogni sorpresa del tempo
è utile, ed è su di lui che ho completato il viaggio
che mi ha portata in un altrove desiderato anche se ho fatto
solo il giro della casa con un vento che ha ordinato nuvole
sul mio fiume. I miei occhi sono fermi
sul ponte e le mie mani sono al sicuro
sulla balaustra, eppure ogni cosa cammina
con il timore per il dono lasciato in ritardo
quando ogni giorno attendeva il miracolo
dei fatti comuni: la spesa, la tavola da ritrovare,
l’abito nuovo che aspettava l’approvazione di un amore,
le scarpe nuove che mi davano l’abitudine di un altro passo…
Ma voi, adesso, potete o non potete comprendere,
diversamente da me che vi chiamo
dalla distanza di questo modo di dire
che possiede il battito dell’eresia, la scomunica
che ha salvato la storia, la disputa che non ha mai
confuso le voci. Se ascoltata nel silenzio
il suo mormorio è il principio dell’assenza,
di notte San Pietroburgo è una compagna fedele
e benché mia, il suo cuore è pronto
per salutarmi da lontano, lungo le pietre
di un nord italiano, adesso che la mia lingua ha occupato
gli angoli del mondo accompagnata da quello
che deve ancora accadere. Allora quale domanda
mi resta ancora da fare: quella alle nuvole che vivono
le loro minacce in un’imboscata alla stagione,
quella per un ringraziamento e riconoscenza
alla pagina bianca, al caldo respiro che ho sentito
tra i miei capelli, all’annuncio che solo il tempo può accettare?
***
CUME ‘N SALÜDÀSS
And the twice told fields of infancy
E i tante e tante volte narrati campi dell’infanzia
DYLAN THOMAS
Tra ul véra regurdàss e quel che adess
impùnen i ann, ghe rèsta ‘stî camp
cume niver prunt a sparì per semper.
Sérum cuntent, ma ‘l savévum no,
cuntent de quéla cuntentèza che gh’è
prima de la muntunàda del temp, per nüm
pedanadùr di zenté anca de la prima nef
e la vûs, che l’è vent e pass decis, le turna indré
amò tücc i ann per fat savè che de sücür
te sét maj sluntanâ e fôrzi tüscôss l’è restâ
‘n ‘stî margàsc, ‘n de l’èrba semper prunta sûta la nef,
che le spécia i funtanèj per deslazzàs
‘n di sö respir, perché quest l’è ul desideri de tücc,
perdunâ da ‘n pensér che l’è desiàda e regal.
Quel che se lasa… ‘n mund che ghe salüda?
COME UN SALUTARCI
Tra il vero ricordo e quello che adesso/ impongono gli anni, ci restano questi campi/ come nuvole pronte a sparire per sempre./ Eravamo felici, ma non lo sapevamo,/ contenti di quella felicità che esiste/ prima della moltiplicazione del tempo, per noi/ camminatori dei sentieri anche della prima neve/ e la voce, che è vento e passi decisi, ritorna/ ancora tutti gli anni per farti sapere che di sicuro/ non sei mai andato via e forse tutto è rimasto/ in questi steli di granoturco, nell’erba sempre pronta sotto la neve,/ che aspetta le risorgive per slacciarsi/ ei suoi respiri, perché questo è il desiderio di tutti,/ perdonati da un pensiero che è risveglio e regalo./ Questo testamento… un mondo che ci saluta?
Nota Bio-bibliografica
Piero Marelli è nato a Limbiate e abita a Verano Brianza. Ha esercitato vari mestieri, tra cui il linotipista. Da autodidatta ha conquistato una vasta conoscenza della tradizione letteraria, approfondendo lo studio della critica e della filologia romanza. Ha lavorato per il teatro, fondando una sua compagnia teatrale, il Teatro del Vento che ha sviluppato la sua ricerca prevalentemente nell’area della gestualità; ha tradotto numerosi autori tra cui Majakovskij, Rilke, Baudelaire. Ha pubblicato numerosi libri di poesia, molti dei quali in dialetto. Ricordiamo qui tra gli altri: Stralusc, Scheiwiller, Milano, 1987. Sempre per lo stesso editore la trilogia Antigone, 1991; Eloisa, 1994; Paola, 1996. Per l’editore La Vita Felice di Milano, i libri: ‘l me bum temp, 1995; La pietra serena, 2001; Cantada di cantad, 2002; Bernart de Ventadorn, La Douza Votz ai Auzida, 2008; Come il ramo di biancospino, Antologia della poesia proven¬zale, 2009; Jaufré Rudel, Amor de terra lonhdana, 2012; Guilhèm de Peitieus, Pos vezem de novel florir, 2015; Apocalypsis cum figuris, 2015. da ‘N gir a pè, Lietocolle, 2018).