R. Caracci per Maddalena Capalbi
![]() Nessuno sa quando il lupo sbrana
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autori: | Maddalena Capalbi |
formato: | Libro |
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IL CANTO DEGLI AFFETTI SBRANATI
su Maddalena Capalbi, Nessuno sa quando il lupo sbrana
di Roberto Caracci
Questo libro affonda nel ricordo.E e in ciò che del ricordo rimane come traccia, icona e ferita. Siamo alle radici di un romanzo familiare che è piuttosto un campo di battaglia. E ciò che rimane di quanto il lupo degli affetti ha 'sbranato, equivale alle vestigia di un campo di battaglia, di macerie dure da rimuovere. La vita, ora e domani, dovrà fare i conti con i brandelli di una giovinezza azzannata alle gambe dalla voracità parentale famelica, che incide con i suoi denti proprio li dove dovrebbe attecchire il desiderio, l'amore, la speranza e il sogno di una gioia possibile.
La poetessa dipinge a rapide e talvolta brucianti pennellate uno scontro di femminilità:: la sua, sognante ed acerba da ragazza, e quella dominante, pressante, castrante della madre, che la mette in guardia contro gli uomini.
"Mia madre mi ha sempre detto/ che gli uomini valgono poco....
E' sempre stata un'ossessione/ liberarmi di mia madre…."
La femminilità rubata deve fare i conti con la frustrazione di una madre che invita a temere non solo gli uomini, ma anche l'uomo che lei ha sposato, e che ai figli indica sotterraneamente come carnefice e causa dei suoi sacrifici.
"L'ho fatto per voi, l'ho fatto per voi"...
....poi d'improvviso ti giri (verso di me)
e dura mi racconti le colpe di babbo.
Questa madre infelice si contrappone alla nudità del corpo, e allo specchio che lo riflette. Lo specchio, per la figlia, resta l'ultimo riflesso della propria solitudine, una immagine di libertà e insieme una conferma di identificazione, di soggettivazione, di esistenza. Ma anche questo osservarsi come donna e ritrovarsi viene insidiato dalla presenza materna, sicché il godimento della propria libertà da parte della figlia va consumato lontano da quegli occhi.
Mia madre appena entra in casa/ guarda il vestito sgualcito che riordino/ e mi specchio...
Intanto sollevo la gonna allo specchio lontano dallo sguardo di lei giustiziera...
Lo scontro, anche nella memoria, è duro, e sopravvive al tempo, alla morte, al lutto.
Chi ha detto che le madri sono sante?
... e non mi importa di chi ti ha portato via
da quale morte sei stata portato via
Paure, odi, sensi di colpa.
Non sono una cattiva figlia, vero?
Il lupo può sbranare in qualsiasi momento, eppure alla base c'è questa nostalgia di di un 'materno che non c'è, forse di una madre archetipica. Una madre ad esempio capace di donare. Per una figlia che non è trattata come destinataria di un dono d'amore, non c'è che trasformare se stessa in donante e beneficiaria.
Conto i fiori che mi regalo/ vorrei l'abbraccio di una madre....
E a fronte di una madre che non dona anzi toglie, ecco un padre autoritario, tronfio, 'dalle mani grasse, che tratta la figlia come una spettatrice da stupire: narcisista ed esibizionista, anche nell'insegnarle goliardicamente a ballare. E non manca, per concludere questo anti-romanzo familiare, la figura di uno zio ricco, seduttivo e stomachevole.. Non sono figlia dell'amore, conclude amaramente la poetessa, che ammette per giunta che certe cose 'non si possono raccontare'.
Sono versi suggestivi e amari, questi della Capalbi: che sembra voler voler gettare fasci di luce chiara e crudele su un passato non metabolizzato, a suo modo traumatico. Poi, non è facile stabilire quanto di catartico ci sia in questa sonda poetica gettata nelle voragini della giovinezza.
Nella seconda parte del libro, intitolata Così i nostri figli, l'ottica non è più quella del figlio ma del genitore. In una disamina pungente, icastica e malinconica, la poetessa guarda ai ragazzi delle periferie, agli adolescenti abbandonati a se stessi e costretti a inventarsi una vita che ha la fragilità delle foglie.Una dolce e sconsolata tristezza pervade questi versi, dove al disprezzo -come non può non accadere agli occhi di una madre- sembra subentrare la pietà.
Splendidi animali, definisce la poetessa questi ragazzi di oggi, che coltivano una loro tediosa e ostinata solitudine, quasi fieri della precarietà dei loro costumi, delle abitudini, delle relazioni. Vivono un loro paradiso a tempo indeterminato, silenzioso, rituale. Non sembrano aver bisogno di nessuno, non vogliono essere né osservati né aiutati. Abitano piazze e città vuote come 'malati terminali' e nulla resta dei loro rapporti d'amore, non sembrano avere memoria per le passioni, i legami e gli affetti:: esibiscono una sorta di indolenza generazionale che si barrica al mondo degli adulti, nelle periferie tutte usuali 'come foreste pietrificate'.
Un ritratto spietato e dolente, di cui è cifra l'ultima breve lirica del volume, piccolo bozzetto di quotidiana, metropolitana, desolante malinconia, dal titolo 'Le storie che finiscono':
'Mi dispiace'/ripete la ragazza dagli occhi neri, al di là della strada.
Il suo ragazzo a gambe larghe/aspetta/non sa cosa/ e piange.