Riv. Odissea ago 15: Angelo Gaccione per Filippo Ravizza con intervista
21.08.2015
![]() Nel secolo fragile
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autori: | Filippo Ravizza |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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EDIZIONI NUOVE SCRITTURE - BIBLIOTECA ODISSEA
LIBRI STORIA, ETICA ED ESISTENZA IN FILIPPO RAVIZZA di Angelo GaccioneDella generazione dei poeti milanesi degli anni Cinquanta, Filippo Ravizza è uno dei migliori, se non il migliore in assoluto. La mia stima nei suoi confronti è doppia: per la qualità della poesia e perché è fra i rarissimi letterati di questa città, ad aver conservato una sana consapevolezza civile. È stato il solo poeta, nell’indifferenza generale, che ho incontrato al sit-in di protesta sotto gli uffici del Consolato Francese di Milano, dove una folla di cittadini, francesi e non, si era riunita per esprimere il proprio sdegno e far sentire una calorosa solidarietà internazionale alla redazione parigina di “Charlie Hebdo”. Ad onor del vero c’era anche Cesare Vergati, ma lui lavora all’Istituto Francese di Milano, ed era quasi scontato che lo avrei trovato lì. Ravizza non è solo un ottimo verseggiatore e un critico di poesia attento e puntuale, la consapevolezza civile di cui ho detto, ne fanno anche un acuto saggista. Il suo itinerario poetico è scandito da tempi ragionevolmente dilatati, segno che la materia ha richiesto una doverosa decantazione prima di approdare alla pubblicazione, ed anche il corpus che negli anni è andato a comporsi, è abbastanza contenuto: indice anche questo di rigore e sorvegliata attenzione per il proprio laboratorio. Ne ha guadagnato sia l’espressività (mai banale e priva di cadute), sia la materia che da quella espressività è sorretta e riscattata in tutte le sue profonde significanze. Insomma, la poesia di Ravizza dice qualcosa al lettore, perché ha qualcosa da dire, e dunque questi non ne resterà deluso.
Chi prende in esame un libro (per me importantissimo e di straordinaria maturità) come Nel secolo fragile, potrà verificare direttamente alcune delle valutazioni qui espresse. Vi accorgerete subito che Ravizza è un poeta che sta dentro la storia (vicina o lontano poco importa): che sia l’esaltante epopea del Sessantotto con i suoi entusiasmi, ideali, speranze di cambiamento o il Risorgimento italiano, a partire dalla Repubblica Romana del 1849 con i suoi giovani eroi generosamente immolatisi per la patria. Sta dentro la storia, come non accade più da tempo ai poeti italiani del dopoguerra (intendo il secolo tremendo e infinito del Novecento e che alcuni hanno impropriamente connotato con un aggettivo altrettanto improprio, e che non rende giustizia alla sua tragica dismisura: breve), e ci sta con tutta la sua lucida consapevolezza. Testi come “Ci pensi ancora?”, “Il mio nome”, “In memoriam Colomba Antonietti”, per citarne alcuni, ne sono l’esempio più lampante. È così presente la storia in questo libro di poesie, tanto che il testo di pagina 75 dedicato alla presa della Bastiglia del 14 luglio 1789, si intitola proprio “La Storia”. Storia di uomini e di eventi, di passioni e di ideali, di piazze e di volti. Ma sta anche dentro una dimensione geografica precisa questo libro: l’Europa. Quell’Europa che oggi delude per il suo gretto egoismo, per le sue chiusure, per non avere imparato nulla delle più recenti lezioni della Storia, e che Ravizza assume come paradigma di una civiltà comune, di radici linguistiche comuni, e non solo come sentire, come cultura. Radici linguistiche che fondano la lingua che sarà dei poeti, e dunque egli come poeta non può che sentire madre e patria il suo spazio, i suoi confini. Un’Europa fatta di ponti che si attraversano e di fiumi che ci conducono, non di muri; un’Europa di piazze e di luoghi che sono ora memoria di ciascuno. Da questo punto di vista Ravizza è forse il solo poeta italiano di mia conoscenza (di questi anni), a cantare ancora l’Europa, a farsene sentinella della parola. Alcuni dei versi risentiti della poesia “Geografia” sono eloquenti:
“Europa Europa perché solo io ti canto?
Non passano più popoli e poeti
non guardano più nell’orizzonte
Non passano più popoli e poeti
non guardano più nell’orizzonte
non vedono speranza non vedono futuro?
Davvero questa è la fine della tua Storia?
Davvero questa è la fine della tua Storia?
Ma numerosi sono i testi che la mettono al centro della sua speculazione e della sua elaborazione formale: da “Europa Europa” a “La pietra dove finisce l’Europa”; vi troviamo il limes (Portogallo) e vi troviamo la luce del pensiero che si fa poesia (Grecia). Come dire: la centralità della tradizione europea e il suo polo opposto, tuttavia ponte aperto verso altri lidi, altre contaminazioni. Non dunque, l’hic sunt leones degli antichi. Questa poesia fatta di materia e di storia, di realtà effettuale e di pensiero, e che non rinuncia ad una ferma indignazione morale, non trascura tuttavia la sua dimensione più privata, la sua “urgenza esistenziale”, come scrive in post-fazione Mauro Germani. Da tale punto di vista, un filo continuo corre lungo il tracciato di questo libro e si interroga sulla sorte di ciascuno; sulla comune esperienza mondana; sulla precaria, breve ed effimera condizione umana che ci sovrasta, con una radicalità pessimista che segna davvero una svolta nel sentire del poeta. Avrei solo l’imbarazzo della scelta nel citare i numerosi testi e nel riportarne gli altrettanti copiosi versi che ho evidenziato ad abundantiam con una matita rossa. Di passaggio voglio dire che da tempo non mi capitava di sottolineare, felicemente ammirato, la quantità di versi e blocchi interi di versi come in questo caso, per la loro pregnanza e la loro bellezza. C’è, ora, in questa visione ragionatamente sconsolante di Ravizza e che segna tutto il libro, la presa d’atto del limite, della sconfitta, del “grande mai più” che tutto azzera, il vuoto che ci inghiotte. Per trovare una consapevolezza così determinata bisogna andare alle pagine di alcuni celebri filosofi (non bisogna trascurare che Ravizza ha compiuto studi filosofici), vediamolo da questi versi di chiusura del testo “Lieve possa esserti il passo” : (…) poi nulla resterà,/ nulla: nemmeno il ricordo…/ saperlo è giusto, saperlo è l’enigma/ che noi siamo./ E ancora dal testo “I grandi fiumi” : (…) sarà un tempo breve amico mio,/ il tuo e il mio sarà dal nulla al nulla senza saperlo,/ ignorando il vuoto che per poco/ ci ha ospitato…/. Niente, vuoto, mai più… intorno a questi lacerti, a questi lemmi si avvitano testi dolenti ed esemplari nella loro sconsolata presa d’atto: “dopo è tutto buio e nulla/ e tutto muore/ persino la memoria”/. Ed il testo scritto dopo una visita ad un amico morto, al cimitero di “Lambrate”, così chiude: vivere non ha senso/ né storia né speranza/. Nelle toccanti e struggenti poesie dedicate alla madre morta (“Ricordo il vetro” e “La più grande -in memoriam-”), proprio perché ad esserne toccata è la carne viva del poeta, “l’inutile e sconsolato vivere” leopardiano trova in Ravizza i modi, le forme e gli accenti più vibranti e più veri. Sono parole autentiche, misurate, in grado di incidersi nella nostra mente per restarvi.
Forse il rimedio al quieto orrido, all’infinito nulla, al niente che non è niente e neppure esiste (sono versi di “Viaggiatore d’Occidente”), che ci attende e dove neppure la memoria ha scampo, sta in un raro, miracoloso, incontro fraterno di uomini; in una solidale condivisione al dialogo, in quella proustiana “consanguineità delle menti” in cui la poesia possa tornare ad essere “un argine al male” come ha scritto Elsa Morante, o venire a noi, come scrive splendidamente Ravizza: “come una lieve benedizione/ indulgente rassegnazione della notte…”
Filippo Ravizza Nel secolo fragile La Vita Felice, 2014 Pagg. 100, € 13,00
*** Intervista al poeta Filippo Ravizza
“Nel secolo fragile” è un libro di grande importanza, non solo poetica, abbiamo rivolto al suo autore alcune domande.
Gaccione: Come collochi questo libro all'interno della tua produzione poetica?
“Nel secolo fragile” è un libro di grande importanza, non solo poetica, abbiamo rivolto al suo autore alcune domande.
Gaccione: Come collochi questo libro all'interno della tua produzione poetica?
Ravizza: “Nel secolo fragile” è il mio settimo libro di poesie, dopo un cammino lungo il sentiero accidentato e impegnativo della parola poetica, durato ormai quaranta anni; eppure, almeno nelle mie intenzioni, questo libro che si porta dietro quelle che riconosco essere le tematiche costanti e ricorrenti di tutta la mia produzione (la riflessione sui rapporti tra vero poetico e vero storico; sull'enigma del tempo; sul destino e sulla mancanza di un destino; sul “grande mai più” ovvero l'annientamento che ci attende) è anche un libro che vuole tentare uno slancio, un'apertura di percorso teoretico ed esistenziale verso il futuro, verso ipotesi di costruzione sistematica del futuro. Il secolo fragile è il nostro, il ventunesimo secolo. Ed è fragile perché nasce (abbiamo finora vissuto solo i primi quindici anni di questo secolo) all'insegna della più pervasiva e tendenzialmente totalitaria di tutte le ideologie: l'ideologia che dice che è finita l'epoca delle ideologie, una ideologia, sia detto per inciso, che tutto è tranne che innocente perché serve ad eternizzare il presente e rende impossibile la pensabilità stessa del cambiamento.
Gaccione: Puoi raccontare ai nostri lettori la genesi di questo libro e le pulsioni che ci stanno dietro?
Ravizza: Tutti i miei libri sono sempre stati il frutto di quelle che possiamo tranquillamente chiamare ossessioni ricorrenti. “Nel secolo fragile” nasce, in questo senso, quasi dieci anni fa un pomeriggio di sole a Lisbona. L' "urto" emotivo fu la visione del “Ponte Veinticinco de Abril”, questo grande ponte che attraversa il largo, imponente fiume Tago e congiunge Lisbona con la città sita sull'altra opposta riva. Questo splendido ponte mi richiamò alla mente tutti i ponti delle grandi e belle città dell'Europa e diede inizio ad una ricorrente e ininterrotta riflessione sul ponte come opera dell'uomo, opera con cui l'uomo, hegelianamente si potrebbe dire, interviene sulla natura e sul paesaggio, modificandoli a proprio vantaggio, mettendo in contatto, in collegamento, realtà e territori, dimensioni che sarebbero destinate a rimanere separate, divise, contrapposte, se non ci fossero i ponti. Da lì la voglia di costruire un libro che si giovasse di tutta una serie di “ponti”, “architetture”, costruiti di forma e contenuto, finalizzati ad unire e comporre in affresco tutta una serie spazio/temporale di luoghi, situazioni, dimensioni, di volta in volta individuali o comunitari, generazionali o esistenziali, oppure storico/culturali. Insomma, uno sforzo di unità in affresco di tanti frammenti. Un desiderio di unità. Affidando anche alla parola poetica un ruolo di resistenza al nostro presente frantumato, questo secolo fragile a cui si vorrebbe negare la narrazione del futuro, la speranza.
Gaccione: “Nel ritmo del passare” è, dell'intera raccolta, il testo più ultimativo. Nulla è destinato a restare, tutto è provvisorio, transeunte...
Ravizza: Io non dimentico mai la grande, coraggiosa e dura riflessione di un filosofo, un letterato, un maestro come Jean Paul Sartre: “L'uomo è una passione inutile”. È il frutto di una concatenazione casuale di eventi, sicuramente stupefacente, ma altrettanto sicuramente priva di qualsiasi causalità. L'uomo è un caso e la sua esistenza è un breve arco temporale tra il non ancora e il grande mai più (direbbe Heidegger). Non solo, con noi muore anche la memoria che noi abbiamo di noi, che io ho di me. E quindi, un attimo dopo la nostra morte sarà come se non fossimo mai nati. Questo io scrivo: “(...) bisogna dirlo bisogna scriverlo/ è questa o poesia o mia poesia l'unica/ forza il vero amore che tutto abbraccia/ riesce ad abbracciare con occhi lucidi,/ grandi di quanta dignità è possibile/ nel nostro essere uomini.”
Gaccione: Puoi dirci qualcosa sulla tua officina creativa e sul modo come lavori?
Ravizza: Ventitreenne affermavo entusiasta che “fare poesia” era “fare musica con le parole”. Questa formulazione, forse ancora venata di fervore post/adolescenziale, è però ancora sostanzialmente mia, continuo a riconoscermi lì. Oggi, a sessantatre anni, potrei elaborare analisi certo più articolate, ma poi però per me il cuore vero della questione è lì, l'avevo già intuito da ragazzo: poesia è un'emozione che trova una forma, e la mediatrice di contenuto e forma è la musica, il ritmo, la prosodia dei versi. Di più: ogni contenuto esige la propria forma, la propria ritmica precisa. All'ombra di questa convinzione, lavoro. Nessuna metodologia “razionale”, non mi metto al tavolino dicendo “ora scrivo una poesia”. Vengo colpito da una visione, un evento, un concetto, un oggetto materiale o un'opera dell'uomo, o da una questione storica o una problematica esistenziale. Vivo alcuni mesi o, a volte, alcuni anni “rimuginando”, letteralmente “tallonato” da queste riflessioni che devono sedimentare, devono maturare sino a dare luogo ad una piccola esplosione creativa: i miei libri poi vengono scritti in tempi relativamente brevi. Dopo tanto silenzio le poesie sgorgano una dietro l'altra fino a comporre un mosaico dotato, per l'appunto, di senso e di forma, di un particolare “timbro”. Controprova di tutto questo sta nel fatto, sin qui sempre accaduto, della totale abulia creativa dopo aver scritto un libro. L'ultimo libro mi assorbe sempre completamente; per almeno un anno non scrivo più nemmeno un verso, perché non ho tempo per pensarlo, perché vivo completamente “dentro” alla dimensione, alla visione, dell'ultimo libro dato alla luce.
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