S. Guglielmin per Mia Lecomte
![]() Intanto il tempo
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autori: | Mia Lecomte |
formato: | Libro |
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Intanto il tempo (La Vita Felice, 2012) di Mia Lecomte si apre con una bambina che scrive poesie, accesa emotivamente nel più candido e dolente dei balconi, la scrittura, e dimentica del grigio paesaggio intorno: è un “miracolo piccino picciò”, che diventa destino, ma anche compito, progetto, che si prefigge di raccontare le ombre attraverso la luce delle cose, il disequilibrio salutare, parlando della trasformazione delle pietre in nuvole e delle nuvole in pietre. L’esergo del poeta portoghese Casimiro de Brito annuncia la strada: Prendo in mano una pietra / e penso: una nuvola / un poco meno effimera”. L’effimero, in questo libro, non è l’inessenziale, ma il contrario: è la verità cangiante degli esseri, il loro stare insieme prima di ogni comprensione, è la relazione io-mondo messa in piedi dalla fenomenologia husserliana, la quale, in Partiturina, diventa poesia, in cinque sequenze esemplari: “Le cose come ci circondano esitano / a volte così poco che possederle / significa sottrarsi” dice la prima, aprendo uno spazio senza soggetti, dove “ le cose” e “noi” si coappartengono, espropriandosi reciprocamente e così mostrando la vera natura dell’abitare autenticamente il mondo. Quando l’io prevale, in verità prevarica. E Mia Lecomte ce lo dice in uno stile dove il sintagma pesa come piombo, obbligandoci a una sosta di riflessione, per incontrarlo nella sua verità a volte ontologica, a volte socio-affettiva o psicologica. La sommatoria dei tasselli, che spesso e volutamente non torna, come il calcolo dei dadi di montaliana memoria, ci restituisce la violenza maschile e la tenerezza della donna, ma anche l’assenza di “azzurro” che pervade la terra e la sessualità, consumata in una stanza buia – ci racconta una breve lirica – odora di morte.
“La vita è un aggregato di materia organizzata” scrive Lecomte in Inventario; la sua pesantezza ci tiene in piedi, per terra. Vivere, infatti, qui, non ha grandi pretese, non vuole il volo, il salto mortale, bensì il passo quieto e pieno di pietas verso le cose, che ci guardano e ci accompagnano e, talvolta, ci consolano. La casa, in questo senso, è decisiva perché dovrebbe delimitare lo spazio del viaggio, tenendoci al sicuro, consentire alla vita di rimanere nuvola e pietra, senza ferirsi. E invece, come in molta poesia femminile contemporanea, la casa diventa selva, dove la ragione si perde e “comincia il dolore”: il tema è drammatico e Mia Lecomte lo affronta con originalità stilistica, ora usando la paratassi e l’appunto da taccuino (casa di bambola) ora adottando la voce della favola (“queste poche ferite a stanare / la bestia tra le piante il cappuccio strappato”, Cappuccetto rosso), ora aprendo all’autobiografico, come in Musical chairs, dove l’uno (il padre) e l’altro (il marito / il compagno) si “competono”, ossia gareggiano tra di loro, per avere l’esclusiva su di lei, ma anche le “competano”, per cui le spettano chiedono cure. E tuttavia, come ci dice il gioco a cui il titolo fa riferimento, le sedie non sono mai abbastanza e qualcuno resterà in piedi, game over. A diffondere la musica, qui, sono i legami parentali, dai quali non si può prescindere perché la solitudine è una condizione ancora più penosa, come ci ricorda Funamboli: “quaggiù quel / che è solo viene meno / vive appena sopra il filo sospeso / ma atterrato barcolla”.
Intanto il tempo contiene una prefazione di Gabriela Fantato e una Nota ai testi di Elio Grasso, due autorevoli e attenti lettori che scommettono giustamente su questa opera, scritta da un’autrice e traduttrice impegnata tra l’altro nella letteratura della migrazione e nelle tematiche del confine. Anche questo libro si muove lungo la linea che congiunge e disgiunge, nel contempo, maschile e femminile, esseri umani e cose, razionalità e irrazionalità, con risultati senz’altro riusciti.
Diploma
La bambina che scrive poesie
si accende tra gli ultimi banchi
con tutto l’inchiostro
la gomma sbriciolata un elastico
scivolato dal biondo la bambina
sai scrivo poesie ci dice
e colora gli occhiali sul naso
gonfia il nome con le piume arrossate
libera le grammatiche, un miracolo
piccino picciò, libera il dolore
in bell’ordine nell’astuccio di raso
poi si piega ad allacciare il passaggio
quattro stringhe da un intero destino
e così quando rialza la testa
la bambina che scriveva poesie
è già un’altra si dimentica oramai
di affinare il suo lapis sorride
e spegnendosi non dice più oltre
non si accorge
Casa di bambola
Sezione della casa.
Frontale. Mezza in ombra.
Il terzo piano è soffitta.
Rotola una palla, costante, e la polvere è viola.
Il secondo piano si flette.
Tutti i passi dei figli, a migliaia. Dei gatti.
Si flette.
Al primo piano comincia il dolore.
Lei è tutta sul letto, decomposta.
Lui la aspetta nella vasca da bagno.
Al piano terra è cominciato da giorni.
Lei ora è in cucina. Ha già pianto e si affretta.
Lui l’ha seguita con le sue lenti tabacco.
Fuori un groviglio di spade. Il prato col box.
C’era il nome.
La sezione non mostra le scale.
Si passa da dietro, tra i piani.
I figli lo sanno tutti in fila.
In salotto lei ha perso l’età.
Lui la ragione.
Scricchiola un osso qualunque, un molare.
La polvere si è fatta celeste e riflette.
Non si aspettano strade
Darkroom
Significa che la stanza è nera
e i corpi ci stanno da morti
stretti fra loro in genitale malinconia
buoni a succedersi in un presepe impagliato
o una scacchiera senza misericordia
significa che l’odore nel buio
è quello dell’origine privata del verbo
quello che la carne sa dare
quando è così sola
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