V. Curci su incroci nro 27
![]() Il pane degli addii
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autori: | Vittorino Curci |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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incroci - semestrale di letteratura e altre scritture - anno XIV, numero 27 - gennaio-giugno duemilatredici: Scheda recensione per "Il pane degli addii" di Vittorino Curci, a firma Maria Rosaria Cesareo
Vittorino Curci
IL PANE DEGLI ADDII
La Vita felice, Milano 2012
«Ci sono cieli e piante, e stagioni e ritorni, ritrovamenti e dolcezze, ma questo è soltanto passato che la vita riplasma come giochi di nubi. La vigna è fatta anche di questo, un miele dell’anima» (Cesare Pavese).
Torna a farsi leggere un inconsueto e sorprendente Vittorino Curci con una silloge poetica densa e delicata: Il pane degli addii, edito dalla milanese La Vita felice, ventesimo nella collana “Le voci italiane”. La metafora de La vigna di Pavese bene si presta ad un approccio con il testo di Curci che, in sostanza, ne ricalca alcuni contenuti profondi con la riproposizione di un tema molto caro e familiare alla letteratura di tutti i tempi: lo scorrere del tempo, il passato che recita sul palcoscenico dei giorni a venire nel dialogo mai interrotto tra i tra-passati e i passanti.
La mente, a volte, fa strani giri, insolite congetture; così, il testo di Curci, chissà per quale meccanismo assurdo (mica poi tanto) può rimandare, mutatis mutandis, all’Antologia di Spoon River. In fondo, non è forse una Spoon River il suo viaggio introspettivo, il tentativo, esperito da Curci, di recuperare tutto quello che è concesso “sentire” ai nostri corpi e ai nostri poveri cuori nell’arco di tempo che ci tocca essere… o non essere? La sua posizione privilegiata di spettatore sospeso in un nonluogo «la città dei lapidati», «il precipizio del futuro», «l’atlante delle tue passioni», «lo spazio dettato dal vento», «le quinte del cielo», «il pozzo delle spiegazioni», «il buco nero che dispensa il pane degli addii»… e l’elenco potrebbe proseguire, gli consente facilmente di sbobinare il nastro e rivedere il film della vita, di raccogliere i ferri e di tirare le somme senza, tuttavia, apportare alla pellicola tagli o potature di sorta. Ri-vedersi per ri-vivere, allenandosi, così, ai distacchi della vita «con esercizi di trasloco e armistizi fragili».
«La scienza dei commiati», per dirla alla Mandel’štam; quel «definitivo abbandono di qualcosa che è stato nostro e ci ha nutrito»: eccolo il pane degli addii, e non è casuale che Curci abbia scelto proprio il pane in quanto alimento per eccellenza. Beninteso, «l’abbandono» di cui parla potrebbe non essere così definitivo, il distacco risultare meno traumatico: basterebbe serbarlo nel cuore quel “qualcosa” o quel “qualcuno”, sistemarlo al posto giusto, magari in un cassetto segreto dell’anima e tirarlo fuori al momento opportuno, quando la malinconia viene a farci visita, quando ci massaggiamo il cuore con un’immagine della nostra infanzia, con quel ricordo buono che, istintivamente, ci fa chiudere gli occhi e azionare il sorriso, quando ci regaliamo una manciata di tenerezza e volgiamo lo sguardo indietro per vedere di nascosto l’effetto che fa.
Ma allora «l’eredità è solo questa? Uno scacco delle immagini? Un imperdonabile e vertiginoso arretramento?». Può darsi, ma per fronteggiare tutto questo il poeta sembra aver individuato un antidoto, una sorta di autoterapia (non del tutto indolore), una maniera come un’altra per leccarsi le ferite: trasformare il dolore in nutrimento, in balsamo per lenire i mali dell’anima. In sostanza, restare vigili, pronti a perderle le cose, così come gli affetti (occhio agli “affetti” collaterali!). Se pensiamo che tutto possa svanire in un attimo o in un arco di tempo medio-breve, la perdita non ci coglierà impreparati, il distacco sarà meno duro.
Nei versi di Curci ferita e farmaco oscillano in un processo di continui ripensamenti, slogature e propensioni nell’inconscio: un viaggio nell’aldiqua con biglietto di andata e ritorno, «si torna perché non si è mai andati via», lì dove il vento e i suoi aggettivi la fanno da padrone, dove passato e presente sono in costante dialogo «il dialogo tra un’automobile e un asino», dove non c’è distanza né assenza, dove «parole e silenzio si toccano», dove «il deserto e il mare» sono fratelli, dove i «passaggi dal caldo al freddo» risultano, paradossalmente, impercettibili e «Il cuore indolenzito travasa il tempo / nel cratere azzurro di un vulcano spento». Un’immagine efficace ed affascinate quest’ultima, così come molte altre che abitano il testo: immagini, pensieri, pulsioni logico-quantistiche che entrano ed escono dal campo delle possibilità, scherzano con lo spazio, mettono in discussione il tempo e i tempi, consapevoli a volte del loro essere materia, altre volte stazionando soltanto nell’intimo immaginario.
Indubbiamente Curci è ad una svolta importante. Il faccia a faccia con Lei, «la Signora», ce ne dà conferma: ci si arriva tutti prima o poi al suo cospetto, tanto meglio arrivarci da vivi, «noi, morti al passato», considerato che «Se la morte ci bracca lo fa per il nostro bene, / per farci varcare il confine / con un brevetto da aviatore». Del resto, cominciamo a morire nel momento stesso in cui veniamo al mondo. La vita e la morte seguono la medesima traiettoria. Non è così? Collezioniamo piccole morti nell’arco di tutta una vita: ci separiamo dal ventre materno, muore la nostra infanzia, l’adolescenza, ci abbandonano i compagni di classe, i nostri cari, il primo amore, il gatto, le aspirazioni impossibili, le illusioni, i luoghi amici, l’albero che ci ha fatto da ombra per anni non c’è più. C’è, però, un vantaggio in tutto questo: i nostri “morti” non possono portarci con loro, noi, invece, possiamo portarli con noi per tutto il tempo che ci resta da vivere. Poi, anche noi potremo diventare bagaglio per le vite altrui… e via morendo.
Una tappa significativa nel percorso letterario di uno tra i più apprezzati e singolari poeti attivi in Puglia, ormai riconoscibile nell’ampio panorama nazionale: un libro di “passaggio”, abbastanza distante dai precedenti lavori, anche in termini stilistici: meno criptico, più “abbordabile”, più a misura di lettore, non per questo meno denso e corposo degli altri.