L’addestratore di falchi
Questo libro è nato tre volte, come un’araba fenice. Ogni volta col piumaggio più folto, ogni volta diverso. Ma non servono emblemi araldici. Il poeta civile è un addestratore di falchi. Sa che non basta lanciarli in volo una volta ogni tanto, sotto forma di invettiva, denuncia, pasquinata, pugno sul tavolo, urlo, protesta, sberleffo. Non appena gli artigli, alla fine del raid, tornano a mordere il guanto di cuoio, bisogna ricominciare.
Così l’esile plaquette dal titolo Poesie incivili, pubblicata nel 2010 da Aragno, tanto esile da non contenere titolo sul dorso, ha via via ispessito dorso e discorso. L’edizione del 2017 era un fascicolo carico di pendenze. Chiedeva di essere riaperto, aggiornato, ridiscusso. Queste Pietre d’inciampo raccolgono tutto il pescato, il filtrato, il trattenuto, l’esorcizzato, il temuto da quel lontano inizio a oggi: riscritture, inediti, prestiti da Vangelo di legno verde (Aragno, 2016) e un reperto, Miles gloriosus, dall’antesignana requisitoria in versi Naja tripudians (Marsilio, 1976), “quasi una marziale Spoon River” scriveva Angelo Maria Ripellino.
Le ultime quote di sconquassi e moniti vanno dall’attacco a Israele di Hamas all’assalto di Netanyahu alla Striscia di Gaza, all’annientamento dei suoi abitanti. Dalla guerra di Putin in Ucraina alla lotta sommersa degli iraniani contro il regime degli ayatollah, alla scombinata Weltanshauung di Trump. Dall’Afghanistan, tornato ai talebani tra nuove sofferenze, all’incessante violenza sulle donne, Cutro e il pianeta migranti, la Costituzione da difendere, l’Inno nazionale (forse) da cambiare, il Paese che tocca a noi ridisegnare.
Caratteristica o avidità della poesia è spiazzare, spaziare, proiettarsi oltre, non ridurre tutto al presente. La poesia civile fronteggia, invece, l’ottusità nel suo divario. Stesso alveo o fronti contrapposti? Può la poesia civile restare poesia, anche se incaricata del lavoro sporco? Io credo di sì. A una condizione: che affronti il presente e il reale come fossero malleabili, plasmabili, flessibili, cercando di trasformare il presente e i suoi magneti in futuro coi denti da latte. Solo la memoria corta ha i denti guasti.
Se dovessi paragonare la poesia civile a uno strumento musicale, tirerei in ballo la fisarmonica. Il mantice si allarga e si restringe, strappando all’aria note, qualità timbriche e modulazioni. Poesia civile e fisarmonica ricordano le orchestrine che accompagnavano mestamente i funerali e poi tornavano a casa dal camposanto, scatenando jazz per le strade di New Orleans. Anche nel nostro caso, anche ai nostri giorni, lutto e brio, tasti e salmi, tumulazioni e nozze con i fichi secchi sono in stretta relazione.
Poesie del momento? Forse. Ma certi momenti si dilatano, non passano mai del tutto, formano sedimenti, concrezioni, mulinelli, si ripropongono nel bene o nel male alle coscienze, alle famiglie, ai giovani, alla geopolitica, alla fantapolitica, a chi si guarda attorno, a chi guarda avanti.
Poesie del momento e oltre, nel girotondo-finimondo. Pori dilatati, gugliate di filo d’Arianna nel dedalo del disorientamento. Pietre d’inciampo per indurre alla sosta, al giudizio, alla ricarica. Poesie come saliva andata di traverso, senso di fastidio e tosse, sorsate d’acqua fresca, spinte all’insù, tentativi di rinascita. In questa ridda di trasformazioni e acquisizioni, le parole sono falchi che stringono nel becco i fatti.
La lettera di Papa Francesco dall’ospedale dov’era ricoverato, pubblicata il 18 marzo 2025 dal Corriere della Sera, dice con forza: “Le parole non sono mai soltanto parole. Sono fatti che costruiscono gli ambienti umani. Possono collegare o dividere, servire la verità o servirsene. Dobbiamo disarmare le parole, per disarmare le menti e disarmare la Terra. C’è un grande bisogno di riflessione, di pacatezza, di senso della complessità”.
Messaggio ribadito dal successore di Papa Francesco, Leone XIV. Appena eletto, l’8 maggio 2025, dalla Loggia delle Benedizioni di San Pietro, ha evocato la necessità di “parole disarmate e disarmanti”.
I problemi del mondo? Prosa nuda e cruda, cosa centriamo noi? Ragionano così certuni. È il silenzio dei non-innocenti. La volatilità della piattezza reagisce infischiandosene. La più sorda delle ideologie, lasciare le cose come stanno, ha il vantaggio di non mettersi nessuno contro, perché non ci si mette contro nessuno.
Altri considerano la poesia inadatta a cambiare l’andazzo o anche solo a suggerire cosa andrebbe migliorato. Invece è bello immaginare che certi versi possano valere quanto un articolo di fondo, una lettera del pubblico, una miccia accesa sotto il culo dell’indifferenza. Quando bussano col calcio del fucile alla porta della poesia, la poesia non può far finta di non essere in casa. Deve aprire porta e finestre al contrattacco.
Poesia brutalista, come l’omonima architettura affermatasi negli anni Cinquanta del Novecento, caratterizzata da cemento a vista. Béton brut, vigore grezzo, dinamicità strutturale. Cemento armato, non carezze. Diversamente leggera. Vicina però a un’estetica del vivere, del coabitare. Sono edifici anche le battaglie ideali.
Se dev’essere rollio, piccolo cabotaggio intorno alle proprie frequenze o vaghezze, allora è meglio dedicarsi al gioco dello shangai, all’enigmistica, ai bollettini del tempo che fu o alle salsicce cotte tra testi roventi (i sacri testi sono sempre roventi, mentre le salsicce restano salsicce).
Il poeta deve saper tirare anche sul ring del “cotto e mangiato” e prevenire i colpi sotto la cintura. La poesia è una palestra che forma corpo e mente. Ci si abitua a correre da soli, ma al tempo stesso è agone collettivo, staffetta con testimoni. Penso al povero Aleksej Navalny. Riconsegnarsi agli aguzzini, dopo il gravissimo tentativo di avvelenamento curato in Germania, è stato un atto di ardimento e insieme d’afflizione. Aleksej voleva dire: “Questo Paese è anche mio”. Dallo sconforto fatto detonatore nasce la catarsi. È andato incontro a un nuovo arresto, a pretestuose condanne, alla relegazione in Siberia, fino alla morte in carcere. Impunita. Navalny ha inserito la pietra angolare della dissidenza nel massiccio fortilizio del potere, il suo sacrificio come contraltare allo spossante consenso che sostiene il regime di Putin.
Intanto si moltiplicano i nuovi mostri con cui fare i conti: venti di guerra e altri pericoli, crisi climatica, la globalizzazione di incertezze e paure, le destre estreme, i sovranismi in seno all’Unione europea, la diplomazia fatta a pezzi da arroganza e ostracismi, il potere governativo, militare, informatico, persuasivo, immaginativo nelle mani di tycoon col pelo sullo stomaco, guru straricchi consiglieri del re, tecno-oligarchi gestori di piattaforme digitali, social media e satelliti per telecomunicazioni, tutti in corsa per la supremazia commerciale e territoriale.
Poi c’è il rischio intelligenza artificiale, alleata non si sa più di chi, a quale prezzo e con quali limiti di espansione. Occorre stabilire un punto di non ritorno, immaginare delle Colonne d’Ercole da cui stare alla larga, se vogliamo che l’intelligenza artificiale non ci mangi in testa. Il filosofo Henri Bergson pronunciò queste parole, nel ricevere il Nobel per la letteratura nel 1927: “Le macchine che costruiamo, essendo organi artificiali che vanno ad aggiungersi ai nostri organi naturali, ampliandone la portata, accrescono il corpo dell’umanità. Se si vuole che l’integrità di quel corpo sia preservata, anche l’anima deve espandersi”.
Nel nostro Paese l’impegno e la presenza di tanti gareggia con la disaffezione di altri per la cosa pubblica e per l’esercizio del voto democratico. La povertà, le periferie, il sistema sanitario non ne possono più di sottrazioni. La cultura subisce pressioni dalla politica perché si faccia da parte oppure si schieri sfacciatamente. Poi quel partito di famiglia che tenta di farci digerire ciò che è stato e che resta indigeribile. E intanto sollecita e incassa francobollo commemorativo, intestazione dell’aeroporto, famedio in memoria di chi aveva continuato a cavalcare indisturbato, quand’era al potere, conflitti d’interesse e leggi ad personam, a far eleggere in Parlamento i propri avvocati, le amiche a tutto servizio, a irridere l’idea di giustizia e di libera stampa. Rivendicare valori opposti e ricordare l’enormità del caso a colpi di Post-it è il minimo, anche se un po’ rattrista.
Capita di andare controvento su una moto da corsa senza frenare in curva, sfiorando il terreno col ginocchio, lì dove la tuta rinforzata è già strappata. Mantenere l’equilibrio, procedere sul filo del rasoio è il primo traguardo.
Aggiungo una dedica ai giovani “appena nati”, perché imparino a sputar via le cose indigeste, nel ricordo di Roberto Roversi, che in Trenta miserie d’Italia li descrive così: “Contro la porta di una chiesa giovani, giovani appena / nati stanno distesi. E aspettano. / Il cielo soffia sulla loro pelle che stride / perché non riescono a dimenticarsi di vivere”.
Ecco il succo. Non dimenticarsi di vivere, qualunque cosa accada o ci opprima, qualunque pietra d’inciampo ci sbucci le scarpe o insidi il nostro vivere. Il cielo soffia sulla pelle che stride, ma non ci è contro.














