L'epopea del buffone
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Descrizione |
1
I lascerò sonar la lira a Orfeo, Apolline, Minerva, a quel poeta, che l’acqua tolse al fonte Pegaseo, da l’ombra di Parnaso, e poi la meta non cercherò null’altro Semideo, ne l’opra ruda, ben che non sia veta, ma di Saturno o Fauno la zampogna i’ chiamerò, et non mi sia vergogna.
2
E del Gonnella i’ canterò a mio modo qualche facetia in questa ottava rima; et se pur vi sarà errore o frodo, del basso stil nessun non faccia stima, et se colui che canta merta lodo, come quello che tai versi non lima, a vostro modo fate, o vero, o finto, pur che quattrini a me venga nel cinto. Così come il “pedante”, il “cortigiano” o il “dotto”, la figura atipica e colorata del buffone è da sempre presente nelle novelle rinascimentali. Sin dall’antichità, infatti, compito dei buffoni era di divertire, con i loro comportamenti ridicoli e grotteschi, i sovrani e i signori che li mantenevano. Utilizzando non solo attitudini personali, come la prontezza di parola e l’arguzia, ma persino menomazioni ritenute comiche o divertenti, erano per esempio destinati a quel mestiere i nani e i gobbi, o persone in qualche modo deformi come gli obesi, i buffoni dovevano attirare l’attenzione del pubblico e scatenare il riso. Ferdinando Gabotto ripercorre in questo saggio l’evoluzione della figura del buffone nella Commedia dell’Arte, soffermandosi soprattutto sul caso del Gonnella.
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