Hafid Gafaïti La tentazione del deserto La Vita Felice, Milano, 2012 trad. V. Surliuga
Scrivevo di recente a proposito della poesia di Tomaso Kemeny: «Ciò che, in Italia, originariamente, per i mitomodernisti, era il rapporto ontologico tra «mito» e «storia» che caratterizzava il tardo Moderno, oggi, nelle condizioni del Dopo il Moderno non è più la Sensucht nostalgica quella che respira nei versi della poesia più evoluta ma una oggettività, un voler essere e voler apparire oggettivi o super partes in mezzo alla barbarie dei rapporti produttivi estranianti ed estraniati, talché il recentissimo è diventato, come apparenza e fantasmagoria, lo stesso antico, e l’antico (opportunamente modernizzato) è diventato il recentissimo (antichizzato), la merce segnaletica del cartellone mediatico».
Anche nella poesia di Hafid Gafaïti il linguaggio tende a stare dalla parte della «cosa»? O meglio, dell’astrazione della «cosa»? Direi che qui gli «oggetti» sono visti attraverso la lente (di ingrandimento) della macrometafora del «deserto», ciò che designa l’«essere» nella sua declinazione trans-politica, non più «dimora» del «soggetto» ma suo esilio nella impermanenza di ciò che non muta. Nella poesia di Gafaïti la «vita», si scopre irrimediabilmente lontana dalla «vita», i gesti del quotidiano hanno esistenza solo in quanto appartenenti alla geografia, e quest’ultima solo in quanto appartenente ad una «idea». Ma l’idea «deserto» è metafora di un’altra idea che si rivela essere l’idea dell’eterno ritorno. La Storia è diventata una carta geografica: lo Spirito della Storia è diventato lo Spirito della «geografia» e la dimensione mitica si è convertita in pre-istoria, preistoria del «presente» geografico. Il «presente» è nient’altro che l’estensione onnilaterale di una carta geografica.
Nella tradizione poetica italiana non abbiamo un equivalente analogo della poesia della tradizione francofona, non avendo avuto una politica coloniale (se escludiamo la parentesi fascista) non abbiamo, oggi in Italia, se non in esigua parte, una tradizione italofona da parte degli italofoni, e questo è il motivo che rende difficoltosa la ricezione, prima ancora che linguistica, della sensibilità, della imagery della «geografia» e dei metaforismi dell’autore algerino di lingua francese Hafid Gafaïti. Percorrendo la «rotta della sabbia» Gafaïti attraversa il «deserto» calpestando la trans-sahariana, il Maghreb verso l’Ahggar, la Mauritania fino ad arrivare al deserto di pietre dell’America del Nord, attraverso il Texas, il Nuovo Messico e il deserto Mohave, dagli oceani di neve del Canada ai deserti delle megalopoli del Moderno. Il viaggio, reale e/o immaginario, diventa una fantasmagoria, un viaggio all’interno della mongolfiera dei paesaggi esotici, dentro la scrittura, dentro la seducente bellezza di fonemi e luoghi esotici ed arcani. Il segreto della seducente bellezza del viaggio, sembra dirci Gafaïti, sta nel viaggio. Il poeta francofono cita Adonis: «Nel deserto della lingua, la scrittura è un’ombra dove ci si ripara». Un viaggio nell’immaginario della scrittura, dunque, un viaggio nell’immaginario di un’ombra. La scrittura come ombra di una immagine. Anche il tempo diventa immagine e immaginario, si de-sostanzializza, se così possiamo dire, e lo stile di Gafaïti diventa liquido, amniotico, placentare, azzarderei impersonale, così come impersonale appare anche il modo di descrivere le esperienze spirituali come esperienze de-culturalizzate, astratte, ri-naturate, quasi come se la cultura ritornasse «natura».