G. Morale su La poesia e lo spirito per G. Consonni
![]() Da grande voglio fare il poeta
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autori: | Giancarlo Consonni |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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G. Morale su La poesia e lo spirito per G. Consonni
Giancarlo Consonni, Da grande voglio fare il poeta
E’ appena uscito, per le edizioni de La vita felice, Da grande voglio fare il poeta di Giancarlo Consonni, libro che, come succede nelle opere più “ispirate“, supera gli steccati tra poesia e prosa, narrazione e saggio. Ne consiglio vivamente la lettura e ne propongo qualche assaggio, delle tante pagine che meriterebbero di essere segnalate, accompagnato da una mia breve nota.
Da Da grande voglio fare il poeta
Frumento e granoturco
Il granoturco ha possanze turgide, il frumento morbide flessuosità. Il granoturco ha la compattezza di una falange, il frumento le sinuose movenze delle olas da stadio. Il granoturco ha foglie come lame taglienti, il frumento – se accosti l’orecchio – il suono di mille violini. Il granoturco maturo ha in cima un pennacchio militare, il frumento indossa papaveri e fiordalisi come voiles. Il granoturco ha la barba, il frumento lunghe ciglia. Il granoturco è maschio, il frumento femmina.
Il seme del frumento è accolto dalla terra quando questa si appresta al letargo. Le pianticelle hanno una crescita lenta: conoscono il tepore sotto la neve, conservano crescendo l’evanescenza dei sogni.
Il granoturco ha la determinazione delle persone concrete. Viene seminato che la terra è sveglia, cresce in fretta, offre presto il suo aiuto a chi ha fame.
Nonostante il carattere ormai residuale dell’agricoltura, il paesaggio al tempo della mia infanzia e adolescenza era disegnato da pratiche agronomiche e da rapporti sociali non diversi da quelli in auge nei primi decenni dell’Ottocento. La compresenza e la rotazione di granoturco e frumento andavano oltre le regole di una buona agricoltura intensiva: era un modo in cui la vita privata e quella collettiva trovavano una loro forma e ragioni di senso.
Il frumento era destinato al mercato, il frumentone per lo più all’autoconsumo. Il primo veniva associato ai soldi (pochi), il secondo alla fame (molta): fame degli animali, fame degli umani…
I fiori e l’afasia
Non contenti dell’Ada Végia (l’Adda Vecchia, così era popolarmente chiamato il fiume ai Tre Corni), quello stesso anno ci improvvisammo speleologi, calandoci con tute, pile e corde in una fessura che le vicende geologiche avevano aperta nella massa compatta del ceppo a un centinaio di metri dal fiume: un cunicolo stretto e profondo, dove solo in un paio di punti si poteva passare in due. Il fondo si raggiungeva dopo diverse decine di metri, ma era possibile accedervi solo uno alla volta. Vi arrivai per secondo: alla luce della pila, in una minuscola vasca, sul pelo di un’acqua gelida e purissima, mi apparvero due piccoli fiori di un pallore paradisiaco.
Risalito più in fretta che potevo, come del resto gli altri componenti della spedizione, non riuscii a parlare di quello che avevo visto. L’emozione si fermò in gola come un grido trattenuto. Un’afasia che ho provato più e più volte nel rapporto con la poesia.
Il saluto
«A vét?», «A vó». «Vai?», «Vado». Così si salutavano i contadini quando si incontravano nei sentieri campestri. Due sillabe per dire: «Vai a fare quello che ti compete? Bravo, io l’ho appena fatto. Ci vediamo». Non si fermavano a conversare: sarebbe stata una perdita di tempo.
Il luogo
Per noi il campo coltivato era ul terèn, il terreno; ma qualche chilometro più a occidente era ul löch, il luogo: come a dire, il luogo per eccellenza, il posto che ti è riservato nel mondo, il centro della vita.
Alberi
In pochi anni tutto fu messo in liquidazione: gli animali sparirono dalle stalle trasformate in magazzini e garage; gli attrezzi levigati dalla fatica e lucidati dal fendere la terra arrugginirono in disparte; le grandi corti rurali furono fatte a fette in modo che somigliassero il più possibile all’habitat agognato: la villetta.
Costruita nelle ore serali e la domenica, per lo più dagli stessi proprietari-abitanti, la casetta unifamiliare si sarebbe rivelata una tomba per la socialità. Ai rari contatti era deputato il salotto, tirato a cera e tenuto intatto come un tabernacolo. Le case sorgevano come funghi; il frigorifero, la lavatrice, la cucina americana e il televisore facevano ormai il nuovo paesaggio domestico. La comunità – i suoi legami, i suoi riti – si disfaceva con una rapidità impressionante. Il fulcro relazionale si spostava sul mezzo di locomozione: la Lambretta o la Vespa, la Guzzi o la Gilera (a rinnovare l’eterno dualismo italiano). Il giovanotto che possedeva una motocicletta aveva sempre attorno un crocchio di ammiratori e, quel che contava, di ammiratrici. Tutta la cura che prima si investiva per tirare a lucido il cavallo, era ora riservata alla moto, alla Giardinetta; o, di lì a poco, alla Seicento.
La bellezza si rifugiava negli oggetti, mentre il resto, il mondo, si incamminava di gran carriera sulla strada della bruttezza. Si infittiva la schiera degli officianti del disastro: speculatori e capomastri (tutti), geometri (quasi tutti), ingegneri (molti) e architetti incolti (in crescita esponenziale). Con la perdita della tensione comunitaria, gli insediamenti si disfacevano. Le casette diventavano una fiera delle vanità; non meno dei cimiteri, ridotti da luoghi dove misura e pietas erano di casa a campi di incursione sfrenata delle Tre Sgrazie: esibizionismo, kitsch e cattivo gusto. Nei camposanti la bellezza si è spenta coi lumini tremolanti, sostituiti dalle imperterrite lucine elettriche.
Il ragioniere e le rondini
… un certo senso del sacro ci era stato trasmesso: nella cura dei campi, nel rispetto degli animali e delle cose a cui era legata la sopravvivenza. Buttare un pezzo di pane, fosse anche più duro del marmo, era considerato un peccato mortale. Sacre erano anche le rondini, consacrate alla Madonna (ma c’è da sospettare che la dedica non fosse innocente: la loro carne era amara e coriacea e questo ha contribuito non poco a circondare questi uccelli di un’aura religiosa).
Un giorno un impiegato che arrivava dalla città con tanto di completino da cacciatore nuovo di zecca, e relativi optional, chiese a mio padre se qualcuno lo poteva accompagnare al roccolo. L’incombenza cadde ovviamente sul sottoscritto.
Percorso qualche centinaio di metri, il ragioniere, voglioso com’era di provare il fucile, scaricò i due colpi su un gruppo di rondini che stazionavano sui cavi di una linea elettrica, senza che avessi modo di fermarlo. Uno degli atti più sacrileghi che io e i miei compaesani potessimo concepire: solo sputare l’ostia consacrata era di una gravità paragonabile.
In quei lacerti amari e sanguinanti, sparsi per ogni dove, si annunciava la disintegrazione di un mondo.
* * *
Nota di Giorgio Morale
Perché dovrebbe riguardare noi, cittadini del secondo decennio del 2.000, un’opera che racconta la storia di un’infanzia tutta racchiusa nella società agricola dell’alto milanese dalla metà degli anni 40 alla vigilia degli anni 60 del secolo scorso? Una società che ormai non esiste più, sommersa nell’arco di un cinquantennio dal rapido succedersi di due rivoluzioni, quella industriale e quella informatica?
Ebbene, quest’opera, Da grande voglio fare il poeta di Giancarlo Consonni appena pubblicata per le edizioni de La vita felice, ci riguarda per almeno due ragioni.
Innanzitutto per le qualità letterarie dell’opera, per la grazia delicata e robusta della scrittura e della della rievocazione che, nell’unitarietà della sua concezione, supera, come a volte succede nelle opere più “ispirate”, gli steccati tra prosa e poesia, tra narrativa e saggistica.
E poi perché l’autore adulto rievoca la sua infanzia senza nulla concedere all’intimismo e all’egocentrismo, ma è ben piantato nel presente su cui esprime un chiaro giudizio critico: tanto più forte quanto più con affetto e adesione, pur accompagnati da un maturo realismo, quel mondo è rievocato.
Con ciò stesso infatti l’autore ci mostra come sia fracassone, brutto e improvvisato il nostro tempo e come sia possibile un mondo dove ci sia spazio per una diversa attenzione alle persone e agli animali, alle cose e ai luoghi, ai valori e alle parole.
Sono da aggiungere, tra le qualità dell’opera, il fascino perenne dell’infanzia, di cui con sapienza vengono narrati gioie e dolori, e la bellezza di tante pagine, di cui si può qui fornire solo qualche assaggio. Davvero a lettura ultimata possiamo confermare quanto scrive Bruno Nacci nella presentazione: “Pochi libri… comunicano una tale simpatia per lo scrittore, lo si conosca o no”.