Giuseppe Manitta per Filippo Ravizza con «La coscienza del tempo»
![]() La coscienza del tempo
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autori: | Filippo Ravizza |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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Filippo Ravizza, La coscienza del tempo, prefazione di Gianmarco Gaspari, Milano, La vita felice, 2017, pp. 88, € 13,00.
Una poesia che si appropria del tempo è quella dell’ultimo libro di Filippo Ravizza, per l’appunto intitolato La coscienza del tempo. Si tratta di una meditazione multiforme che investe sia i motivi personali, intimamente legati a figure della biografia autoriale, sia i motivi della storia, quella generale, e una conseguente riflessione sulla totalità in cui l’uomo è immerso, il quale si dipana tra gli slanci del passato e la ponderata visione del presente. Ci si trova di fronte ad una variegata analisi della vita, del suo scorrimento sino al naufragio nel nulla, al possibile approdo di una coscienza che è nulla nel nulla. Un concetto complesso, questo del poeta, che si rivolge principalmente all’esistenza e che in diversi luoghi emerge con chiarezza: “Dunque ora tu siedi, abbi pace, / calma la tempesta del dolore, / resta nell’alba e nella quiete / mio lettore, mio fratello; come / paglia bruceremo in pochi istanti, / nulla nel nulla”. Una scarnificazione non solo umana, che investe anche il metafisico attraverso il dubbio: “la porta e il sentiero vanno / incontro al nulla mentre / s’assottiglia il tempo che / ti è dato qui dove cresce / e avanza togliendo il fiato / la spezzata consapevolezza / che nulla è, nulla in fondo / sta”.
Una consapevolezza basilare, reale e ontologica, quella di Filippo Ravizza. Sembra che non esistano spiragli di salvezza in questo percorso che è partito dalla ricerca di una verità inoppugnabile, ma che giunge alla cognizione che l’uomo è stato incapace, nonostante gli slanci del passato, di creare una verità altra, sostitutiva e universale. Il problema della verità, assoluta e non metafisica, interessa le pagine di La coscienza del tempo, in definitiva un porsi allo specchio in cui si mettono in crisi i propri sogni, che si materializzano esplicitamente in un binomio: uguaglianza e poesia. La prima è succube di fronte all’attuale schiacciamento dei deboli e all’incapacità di creare alternative: “… è questa / tranquilla mattanza / delle classi e delle nazioni / questo schiacciare i poveri / del mondo e della stessa / propria casa a illuminare / pietra su pietra la condizione / della fine”. Si vive, così, nell’impossibilità del senso sociale, con il rammarico di non lasciare ai posteri, alla figlia in particolare, una società migliore, ma un’inscalfibile realtà basata sull’individualismo. La diffrazione tra la ricerca del passato e lo scontro con la realtà presente trova alimento nel ricordo e in particolare nella figura del padre, depositario di affetti, di simboli, di una stagione che è presente: “O padre che negli ultimi anni / camminavi solo in una casa / vuota come potrò farti sapere / – io che dubito tanto esista / un’altra realtà – che ti porterò / con me con me fino all’ultimo / giorno?”. In questa domanda risiede tutto l’enigma della vita e della morte, perché la meditatio finis (e il nulla e il vuoto ne sono una conseguenza) sono parte sostanziale della coscienza del tempo. Fine che non significa solo scomparsa, ma anche pietrificazione delle cose: esempio ne abbiamo dal testo Questa mia generazione, la cui chiusura è un’ammissione dura e sconvolgente: “d’essere stati come pietra / come pietra diventati”.
Ma la riflessione di Ravizza non è una semplice constatazione del dolore e del disgregamento, il tempo ha una sua coscienza, tradita sì, ma che possiede uno spiraglio di luce, un approdo possibile. In più occasioni, difatti, chiaramente si individua questo miraggio: il valore sacrale della parola. Gianmarco Gaspari, citando Montale nella Prefazione, dice giustamente della presenza di questo autore, che certo non è l’unico nella sostanza intertestuale (c’è Ungaretti, Leopardi, i maestri dell’ultimo Novecento), ma che si concreta soprattutto nell’affermazione dell’incorruttibile presenza della parola: “provvisorio vuoto… / non pretendere il miracolo / di esistere dalla poesia, non / pretenderlo… adagiati, abbi / pace, vivi questo momento / che ti dona la sparuta serenità / dei versi; possa accompagnarti / ancora… nulla di più alto, forse, ci è dato”. L’ipotesi, che rimane tale nelle contraddizioni della vita sempre più estenuanti, si tramuta alla fine in certezza. Qui, Filippo Ravizza affida la sua parola alla Parola, che supera la dialettica della storia e dei suoi fallimenti, e si nutre della speranza dell’oltre: “io che penso adesso a quale futuro / costruirà questa forte e ancora informe / volontà di essere, essere come acqua / e levigare pietre e ostacoli superare / i mulinelli della Storia sapere ancora / una volta che qualcuno ricorderà / chi fummo noi… e poi spegnere la luce / deporre la matita, affidare al silenzio / alla carta le parole intere”.
Giuseppe Manitta