La migrazione come metafora
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Descrizione |
Ecco un’opera potente nei suoi effetti, che di primo acchito induce il lettore a un esame di coscienza. Noi che, comunque sia, ci vantiamo di aiutare coloro che definiamo migranti, siamo davvero così differenti da loro? Eccoci messi di fronte all’esperienza pensata di un neuropsichiatra infantile impegnato da molto tempo in un lavoro ai quattro angoli del mondo, ma anche nel suo paese, che inizia col parlarci dei suoi nonni paterni e materni protagonisti di una micro-emigrazione dalla campagna alla città, in Svizzera; migrazione interna un tempo definita esodo rurale, suscettibile di smontare i meccanismi politici, culturali e personali che fanno sì che una migrazione possa essere un successo o un fallimento. (J. Furtos)
E fu così che migrando di nuovo in Italia, scelsi di vivere al Sud (che paga per lo sviluppo del Nord!), a Napoli e in un quartiere difficile come il Rione Sanità. E da qui un impegno costante a cambiare un Sistema mondiale che uccide i poveri e massacra il Pianeta Terra. Questa mia esperienza di vita conferma il postulato essenziale di Métraux: «Siamo tutti dei migranti, figli di una migrazione universale, certamente geografica, poiché dai tempi remoti migriamo al di là delle frontiere. Ma anche migrazione interna, migrazione culturale, ma soprattutto migrazione temporale: non siamo mai gli stessi, né viviamo sempre nello stesso mondo». (P. Alex Zanotelli)
Cambiano i tempi, mutano le coordinate geografiche, si meticciano le culture, si ibridano gli stili di vita e le sensibilità, si creolizzano i linguaggi, ma il rapporto di forze – tra esclusi, precari, poveri, sofferenti, migranti, rifugiati da un lato e autoctoni maggioritari e benestanti saldamente ancorati alle loro “democrazie” dall’altro – resta sostanzialmente e ubiquitariamente inalterato, tranne poi a cedere clamorosamente, come è accaduto recentemente sul “muro” o sotto il “filo spinato” posti al confine tra Ungheria e Serbia, sotto la spinta poderosa e disperata di intere masse di uomini, donne, bambini che fuggono dalle guerre e dalla povertà in cerca di un futuro migliore. Non bisogna allora dimenticare o rimuovere la comune appartenenza alla sostanza migrante alla quale la natura umana è costantemente ricondotta (siamo tutti migranti, figli di una migrazione universale… Ma, dimenticandolo, o non avendone coscienza, professionisti della sanità, del sociale, dell’educazione e dell’umanitarismo, ricercatori, giuristi, eletti e gente onesta, scaviamo contro gli altri, autoctoni o stranieri, un’asimmetria priva di etica che intensifica i mali e le violenze che in apparenza pretendiamo di combattere…). (A. d’Angiò) Prendere la migrazione come una metafora – cosa che non necessita di alcuna contorsione o di travestimento della realtà – ci permette di includerci nella comunità dei migranti, di scoprire le nostre similitudini, di pensare e sviluppare insieme il nostro poter dire e agire. I lutti di senso implicano un viaggio da un mondo di senso a un altro, analogo per molti aspetti a quello che effettua il migrante chiamato a tessere l’appartenenza alla cultura di origine e l’appartenenza alla cultura di accoglienza allo scopo di costruirsi progressivamente un’identità nutrita di appartenenze plurali. (J.C. Métraux)
La Migration apparso inizialmente nel 2011 ha incontrato un tale successo che ha spinto la casa editrice francese (La Dispute) a proporre una seconda edizione con una postfazione inedita dell’autore nella quale egli afferma: «Debbo confessarvelo, l’accoglienza riservata al mio libro mi ha piacevolmente sorpreso. Lettori dalle attività più disparate – sociologia, antropologia, etnologia, filosofia, economia, medicina, psicologia, psicoterapia, insegnamento, formazione per adulti, lavoro sociale o umanitario – hanno salutato la pubblicazione con parole che mi hanno toccato molto».
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